Il Papa a Milano: perché lo aspetto?

Sabato prossimo Papa Francesco arriverà a Milano. Viene a trovarci. C’è attesa? "Io, per esempio, lo aspetto. Ma per quali ragioni?" La riflessione di PIGI COLOGNESI

Sabato prossimo Papa Francesco arriverà a Milano. Viene a trovarci. C’è attesa? Al netto di quelli che detestano la Chiesa, dei non pochi (soprattutto stranieri di altre religioni) che non sanno bene di chi si stia parlando, dei paurosi che, temendo attentati, hanno deciso di starsene a casa loro buttando ogni tanto gli occhi ai numerosi servizi che certamente le tivù faranno, dei sussiegosi che son infastiditi dagli assembramenti dove c’è «troppa gente»; beh, al netto di tutti questi sembra che la città stia aspettano il Santo Padre. Io, per esempio, lo aspetto. Ma per quali ragioni?



L’unica veramente convincente è che Francesco – al secolo Jorge Maro Bergoglio – è l’uomo scelto dallo Spirito Santo per guidare la santa Chiesa, è il Papa insomma. Con questa risposta non sono entrato nel terreno della banalità lapalissiana, perché cosa sia il Papa non è poi così scontato. Si può pensare che si tratti di una figura simbolica che ha la funzione di far sentire unita l’enorme massa di persone che credono in Gesù secondo la visione cattolica: un miliardo e quasi trecento milioni. Francamente, però, non sono tanto desideroso di vedere – per giunta da lontano – un simbolo.



Neppure sono anzitutto interessato ai discorsi che Francesco pronuncerà. Non c’è dubbio che le sue parole saranno importanti, che cercherò ascoltarle con attenzione e poi di rifletterci sopra, di trarne delle conseguenze operative. Il mio interesse per quell’uomo – il cui nome viene sentito da quel miliardo e rotti di persone tutte le volte che compiono il gesto più solenne della loro religione – non è prioritariamente legato al contenuto dei suoi discorsi. I miei avi che non sapevano né leggere né scrivere, magari a malapena riconoscevano il nome del Papa regnante citato nel precario latino del loro prete di campagna; eppure sapevano benissimo chi fosse il Papa. E cioè, cito da un’orazione della liturgia ambrosiana: «successore di Pietro, vicario di Cristo in terra e pastore di tutto il tuo [di Dio] gregge». Noi invece possiamo sentire le parole che l’attuale Papa pronuncia, leggerne i discorsi, analizzarne le scelte pastorali, interpretarne le strategie, valutarne le priorità e magari criticarlo perché non coincidono con le nostre, confrontarlo coi predecessori e molto altro. Fermandosi a questo, il Papa si riduce ad essere semplicemente il leader di un’enorme associazione e, come tutti i leader, assoggettato ad una gamma di reazioni che vanno dall’accanita repulsione alla fanatica esaltazione.



Il «successore di Pietro» che verrà a visitarmi sabato, invece, mi interessa perché il suo essere lì in quel luogo e in quel tempo dove mi troverò anch’io mi “costringerà” a riconoscere che la religione in cui credo, lungi dall’essere un insieme di convinzioni, è un fatto storico accaduto 2000 anni fa e che, pur determinato nel tempo e nello spazio, ha la pretesa di salvare tutti i tempi e tutti gli spazi, compresi i miei. C’e una catena di fatti che mi lega a 2000 anni fa; il nucleo indistruttibile di questa catena è quello che parte dall’uomo concreto che vedo oggi e che ha il nome di Francesco, e risale fino ad un altro uomo concreto di allora che si chiamava Simone. Egli viveva in un certo paese ed in un preciso giorno ha incontrato Gesù (che gli ha cambiato il nome, rendendolo Pietro), l’ha seguito, ci ha discusso, l’ha visto morire e risorgere e dargli l’incarico di pascere le sue pecorelle. Sempre c’è stato e sempre ci sarà un «vicario di Cristo», cioè la garanzia che il «gregge» di chi l’ha incontrato non perda la giusta direzione. Sabato pastore Francesco viene a trovare me con tutte le mie ferite. E sarà come essere raccolto e messo sulle forti spalle dal primo Pastore.

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