Cittadini senza identità

<!-- p.p1 {margin: 0.0px 0.0px 0.0px 0.0px; text-align: justify; font: 12.0px 'Times New Roman'; -webkit-text-stroke: #000000} span.s1 {font-kerning: none} --> Dopo il voto in Olanda non si può certo dire che il problema della xenofobia sia risolto in Europa. Manca, spiega FERNANDO DE HARO, una vera riflessione sull'identità

Abbiamo tirato un sospiro di sollievo la scorsa settimana per il risultato delle elezioni olandesi. Anche se bisogna riconoscere che la sconfitta della xenofobia è piuttosto relativa. L’agenda di Wilders si è trasformata in un fenomeno trasversale in un’Olanda prospera. Nella nazione dei tulipani c’è quasi la piena occupazione e i musulmani sono un terzo di quel che gli olandesi credono. I problemi di integrazione non arrivano dall’esterno. Quel che avviene in Olanda è sintomo di un’Europa che non sa riconoscere la realtà, perseguitata dai suoi stessi fantasmi. Disorientata cerca di costruire una cittadinanza, ma senza identità. Prova ne è la sentenza della Corte europea di giustizia sull’uso del velo sui luoghi di lavoro.

Questa volta i sondaggi si sono sbagliati, ma in modo positivo. La prima delle tre sfide elettorali dell’anno in Europa (dopo l’Olanda ci saranno Francia e Germania) non aggiunge punti alla xenofobia e all’anti-europeismo. Wilders non ha vinto le elezioni, ma è riuscito a condizionare l’agenda politica olandese. Con il 14% dei voti, il Partito per la libertà ha imposto un discorso duro contro l’immigrazione, influenzando quasi tutte le formazioni, a eccezione dei Verdi.

Si è diffusa la strana idea che per frenare Wilders si doveva essere come lui, ma più moderato. Si diceva: facciamo meno i buonisti e siamo più fermi sull’immigrazione, perché qualche ragione gli xenofobi ce l’hanno. L’Olanda, insieme con il Regno Unito, è il partner più problematico dell’Unione europea. Non ha mai voluto approvare i salvataggi della Grecia (avremmo potuto risparmiare un sacco di problemi con la cancellazione del debito a suo tempo) e ha detto no all’accordo con l’Ucraina.

Non c’è e non c’è stata una crisi nei Paesi Bassi che giustifichi la loro ribellione contro Bruxelles e le istituzioni. Il tasso di disoccupazione è intorno al 5%: piena occupazione. Quasi la metà dei lavoratori ha un contratto part-time per propria scelta. Il reddito pro capite è di 39.000 euro l’anno. Il grande surplus commerciale è un altro indicatore di prosperità. Gli olandesi godono di servizi pubblici di qualità, con un elevato livello di sussidiarietà, e di una buona istruzione. La loro è quindi la rabbia, la ribellione di chi ha la pancia piena. Da ciò consegue che la soddisfazione civica non può essere solamente economica.

Quello che gli olandesi pensano sull’immigrazione e la comunità musulmana non è conforme alla realtà. Non stanno subendo un’invasione. Pochi giorni fa l’istituto di ricerca Ipsos Mori ha pubblicato i risultati di un sondaggio che chiede quanti musulmani si ritiene ci siano nei vari paesi europei. Gli olandesi credono che nel loro Paese la popolazione musulmana abbia raggiunto il 19%, mentre in realtà è intorno al 6%. Una percentuale senza dubbio significativa, ma che non si sposa molto con l’immagine di un’invasione.

Certamente esiste la minaccia del jihadismo e della radicalizzazione. L’Olanda, come altri paesi, ha esportato combattenti in Siria. Ci sono quartieri di Amsterdam che sembrano Molenbeek. Wilders, di fronte alla minaccia, propone di chiudere le moschee e di proibire il Corano. Tuttavia cinque partiti che hanno partecipato alle elezioni avevano nel loro programma misure estreme. Rutte, che ha vinto, propone meno islam in pubblico e più “valori olandesi”, un aumento del periodo di residenza per ottenere la cittadinanza, con la revoca della stessa nei primi cinque anni, nel caso di stranieri che commettano un crimine.

Rutte, come molti altri, sembra non voler riconoscere che il problema non ha a che fare con gli stranieri, ma con la seconda generazione di immigrati. Il modello di integrazione non funziona, probabilmente perché nessuno sa che cosa siano i “valori olandesi”. L’Islam, come religione di appartenenza, non come ideologia jihadista, è anche un valore olandese, almeno per il 6% della popolazione. L’errore è non utilizzarlo come una risorsa: un errore diffuso in tutta Europa. Gli ultimi dati mostrano che il 40% dei turchi e marocchini di seconda generazione – già olandesi – non considera l’Olanda come la propria casa. L’integrazione, la cittadinanza, non può essere costruita prescindendo da ciò che dà identità a questi olandesi. Questo “essere lontano da casa” è ciò che alimenta il jihadismo.

Pe questo è stato un errore che la Corte europea di giustizia abbia dato ragione alla società che ha licenziato una donna che voleva indossare il velo. L’azienda aveva segnalato nel contratto che la neutralità nell’abbigliamento era una condizione per poter lavorare. Ma può la volontà delle parti limitare il diritto di esprimere la propria identità, in questo caso religiosa? Il contratto democratico europeo, se vuole essere stabile, non può né basarsi su spazi di convivenza forzatamente neutri, né sull’oblio dei beni, economici e sociali, di cui beneficiamo.

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