Khalid Masood, l’autore dell’attentato di Westminster, aveva più di 50 anni: qualcosa di inusuale per un jihadista. I terroristi europei hanno di solito un profilo diverso: sono giovani o adolescenti. Per il resto, però, la biografia di Massud è molto simile a quella del terrorista di Orly, dei responsabili degli attentati di Parigi nel 2015 e di Bruxelles nel 2016: si tratta di persone nate in Europa, criminali comuni che a un certo punto trovano nel terrorismo islamista il senso della propria vita.
Sebbene la realtà insista nel mostrarci testardamente che la minaccia jihadista viene dall’interno, e non dall’esterno, ogni volta che si verifica un attentato noi guardiamo ai rifugiati e agli stranieri. Questo atteggiamento poco razionale è anche spesso accompagnato da un discorso sempliciotto sull’Islam. È facile, per rispondere alle preoccupazioni innescate dal terrore, ricorrere a certe semplificazioni. Come se l’Islam fosse un fenomeno di altre terre, come se fosse qualcosa di statico, come se i passaggi del Corano che parlano di morte e distruzione consentissero di sostenere, senza approfondire la questione, che la religione di Maometto è necessariamente violenta. L’importante comunità musulmana che vive in Italia e in Europa ci invita a non accettare né leggende nere, né leggende rosa, ma ad addentrarci nel mondo complesso con cui, di fatto, già conviviamo.
Il jihadismo è un fenomeno relativamente recente ed è correlato, probabilmente dalle sue origini, con l’Europa. Si tratta di una delle reazioni provocate dal terzo o quarto scontro della modernità con l’Islam. C’è una prima modernità islamica, alla metà del XIX secolo, con radici egiziane, il cui protagonista è Mehmet Ali, che accetta senza censure il progresso proveniente dall’Occidente. Durante quasi tutto il XX secolo, in particolare fino alla fine degli anni ’70, buona parte l’Islam in Medio Oriente è legata al socialismo arabo. Un’esperienza che in Iraq e in Siria, fino agli inizi del XXI secolo, ha portato a una relativa pace e a una certa libertà.
Solo in seguito alla rivoluzione iraniana del 1979 lo sciismo abbandona il suo lato più tranquillo e spirituale. E in quel momento prende forza uno sunnismo di rottura. Quando si cercano le radici dell’islamismo rivoluzionario, politico e violento, sia nello sciismo che nello sunnismo, appare la pista europea. Lo sciismo politico è stato sviluppato da Ali Shariati (1933-1977), un uomo che ha studiato alla Sorbona. Desideroso di offrire un’alternativa all’occidentalizzazione dei gruppi di Stato e all’opposizione comunista, ha usato le categorie del marxismo per creare una nuova ideologia. Qualcosa di simile si ritrova nella storia dei Fratelli Musulmani, ispiratori di un progetto egemonico nel campo politico sunnita, che col tempo si è espresso in maniera violenta. Il fondatore dei Fratelli Musulmani, Al Banna, condivide con Shariati l’influenza marxista.
Sicuramente i jihadisti del XXI secolo possono utilizzare i passaggi dal Corano per giustificare la loro violenza, perché i loro mentori ideologici hanno letto il testo sacro con categorie politiche: le hanno imparate dai maestri europei della rivoluzione. Ciò non significa che la colpa di ciò che sta accadendo sia dell’Europa. Da 40 anni l’Islam vive un processo convulso. Il denaro saudita viene utilizzato affinché la propaganda wahabita (l’interpretazione meno flessibile e più radicalizzabile del sunnismo) raggiunga tutte le moschee di Asia, Africa ed Europa. Il jihadismo è un’arma per le esigenze geostrategiche dei paesi del Golfo nella loro guerra con lo sciismo. Il doppio gioco è costante. Così come lo sciismo è rimasto inviolato da strumenti politici, rivoluzionari e violenti, il sunnismo è stato molto più vulnerabile a essi.
Il quadro è complesso. Ma dobbiamo riconoscere che nel mondo sunnita strumentalizzato dal Golfo si registra anche la nascita di movimenti nuovi. L’Egitto è in questo momento è un focolaio dei cosiddetti “musulmani liberali”. I richiami di Al Sisi non sono necessariamente un esercizio di cinismo. Tutto fa pensare che gli inviti del successore di Mubarak a favore di una “rivoluzione religiosa” siano seri.
Al Sisi ha chiesto a più riprese alla moschea di Al-Azhar, università che funge da riferimento per l’Islam sunnita, di realizzare profondi cambiamenti. E un minimo di rigore non consente di scartare le tante cose che Al-Azhar ha detto in questi ultimi anni. Nel 2012 si è pronunciata a favore della libertà di religione, anche se con restrizioni. Nel 2014 ha condannato gli attacchi contro i cristiani. Nello stesso anno, il re Abdullah di Giordania, alle Nazioni Unite, ha difeso i battezzati. Poi, nel gennaio 2015, è stata firmata la Dichiarazione di Marrakech con cui si è puntato sul concetto di cittadinanza. Anche in Marocco si è registrata, tra gli ulama, qualche settimana fa, una certa apertura alla libertà religiosa. E la Conferenza del Cairo di pochi giorni fa tra i leader di Al-Azhar e una delegazione vaticana ha dato una nuova svolta all’inesplorato concetto di cittadinanza nei paesi a maggioranza musulmana.
Al-Azhar non ha assunto la separazione tra Chiesa e Stato propria del cristianesimo, non può farlo. Non ha proclamato la libertà del clero. Il denaro saudita continua a contaminare ovunque il sunnismo. Il Medio Oriente vive, un secolo dopo noi, la sua Prima guerra mondiale che colpisce anche noi. Ma la nostra ignoranza sull’Islam e ciò che si muove nell’Islam non ha alcuna giustificazione.