Capita a volte, chiacchierando tra amici, che quando qualcuno non si ricorda il nome di una persona o di una cosa, gli si dica: “L’Alzheimer avanza!”. Non c’è un briciolo di irrisione cattiva in questa battuta, tantomeno l’insensibilità nei confronti di coloro che dalla terribile malattia sono colpiti e dei loro parenti. Anche perché, magari, una della compagnia assiste la sorella che ne soffre e che, ancora relativamente giovane, sta dimenticando pezzo a pezzo i rapporti, i fatti, i momenti che fino ad allora costituivano il suo mondo.
L’inserto culturale del Corriere della Sera settimana scorsa dava conto dell’interesse di alcuni poeti per la malattia di Alzheimer e presentava le loro opere. Il giornalista, Roberto Galaverni, scrive che “nel buio, nel silenzio, nell’oblio di questa malattia un poeta può misurare con perspicuità inusuale i termini del suo rapporto con la realtà”. La realtà sociale, anzitutto; se infatti l’Alzheimer è la memoria che progressivamente arretra lasciando spazio al deserto della dimenticanza, si può dire con Alberto Bertoni, uno de poeti analizzati nell’articolo, che esso è l’emblema del nostro tempo, diviso fra una “memoria elettronica e artificiale praticamente illimitata” e una “gran smemoratezza storica e sociale”.
Credo, però, che il punto più interessante di queste raccolte poetiche sia il momento nel quale gli autori si accorgono che, al di là della sua versione gravemente patologica, la malattia del dimenticare interpella direttamente loro stessi e interpella noi che li leggiamo.
Lo dice con chiarezza questa poesia di Pasquale Di Palmo per il padre: “Per ore e ore rigiri fra le mani / senza capire di cosa si tratti / un oggetto qualsiasi, bicchiere / di carta o giornale che sia… / Ma noi che assistiamo al tuo fianco / costernati a quelle che i medici / definiscono ‘manipolazioni / tipiche del decorso / naturale della malattia’, /noi forse lo sappiamo / cos’è un giornale, un bicchiere di carta / ora che sono lì, sparpagliati sul letto, / lacerati, irriconoscibili / come foglie dopo l’avvento / di un’impietosa bufera?”. E non c’è neppure bisogno della bufera che sparpagli giornale e bicchiere per chiederci se davvero sappiamo cosa siano gli oggetti che quotidianamente maneggiamo, quale ne sia la reale consistenza. Il non ricordarsi che il mestolo di chiama mestolo (il celebre inizio – se non ricordo male, appunto! – de La versione di Barney) o il vedere qualcuno che non se lo ricorda, ci invita a lacerare la superficialità con cui vediamo, capiamo, utilizziamo cose e anche persone. E a confrontarci con la loro inesorabile caducità: Alberto Bertoni: “Il mondo è irrevocabile / -fatti, volti, oggetti / le corse dei cavalli, gli affetti / ma io mi dimentico di tutto / come da anni mio padre / perché niente che accade / permane”. Ma forse quello che accade ha una radice che affonda in qualcosa che, invece, permane: Ada Negri: “Contemplo / un di quei fiori, e nel mirarlo tremo: / Tu solo, o Padre, puoi così fissarmi / da un prodigio di petali. Nel volto / d’un fior di campo, che in suo cerchio breve / racchiude l’armonia dell’universo, / ti riconosco”.