I rapporti pubblicati nelle ultime due settimane a Bruxelles mostrano il labirinto in cui ci troviamo. Il Rapporto Spagna 2017 e il Libro bianco sul futuro dell’Ue descrivono l’impotenza di una crescita che non garantisce benessere. Forse il problema economico non è solamente il risultato di politiche monetarie adottate in ritardo o delle difficoltà nel coniugare interessi del Sud e del Nord, nell’aumentare la produttività o migliorare l’istruzione. Forse manca qualcosa prima, una stima elementare per quello che ci fa essere europei o spagnoli. Sarà che i primi che hanno bisogno di essere accolti siamo noi stessi, la nostra stessa esperienza?

Il Libro bianco presentato da Juncker la settimana scorsa punta, senza dirlo chiaramente, su quello in cui credono i francesi e i tedeschi più europeisti: un’Europa a due velocità che metta da parte il federalismo per tutti. Ora che il Regno Unito se ne va, riconosce che l’Unione ha disatteso le aspettative nella peggiore crisi finanziaria, economica e sociale del dopoguerra. Il problema non è solamente che si è prescritta l’austerità quando era necessaria la spesa. Ora che la ripresa è iniziata, la disuguaglianza rimane o aumenta e non si è tornati né al livello di reddito, né a quello di occupazione di 10 anni fa. E per la prima volta dalla Seconda guerra mondiale i giovani possono vivere peggio dei loro genitori. Per questo dubitano dell’efficacia dell’economia sociale di mercato.

Il Rapporto Spagna 2017 va nella stessa direzione: l’economia è in forte crescita e la moderazione salariale contribuisce alla creazione di occupazione. Ma Bruxelles segnala che l’uso diffuso di contratti a tempo determinato non è un bene per la produttività e che il rischio di povertà per coloro che sono assunti persiste. I servizi per il lavoro pubblici non funzionano bene e gli aiuti alle famiglie sono bassi. La disuguaglianza minaccia la coesione della vita sociale.

Sembra difficile uscire da questa situazione: per creare occupazione il mercato del lavoro viene deregolamentato e l’occupazione non toglie tutti dalla povertà. La riattivazione dell’economia genera entrate per diminuire il deficit e non per fare più spesa sociale (la politica fiscale lascia molto a desiderare). Le politiche espansive sono cosa della Bce. Non c’è né capacità, né volontà di cambiare le politiche pubbliche. Come nel caso della politica del lavoro che è paralizzata da uno statalismo assolutamente inefficiente proprio degli anni ’80 (il denaro della formazione finisce per essere un sussidio a sindacati e organizzazioni imprenditoriali a cui non si chiede molto in cambio).

La Commissione dice che cresce la sfiducia verso l’economia sociale di mercato. Non c’è da meravigliarsi. Gli europei in generale e gli spagnoli in particolare, forse senza esserne molto consapevoli, si trovano imprigionati in alcune categorie che vanno dal vecchio liberalismo al vecchio statalismo senza alcun conflitto. La crisi ha smantellato molte cose, ma stranamente non sembra aver scalfito questa interpretazione della vita sociale ed economica che va contro l’esperienza di molte persone, l’esperienza elementare che ti spinge a lavorare, a creare un’impresa, a intraprendere.

Sebbene la crisi abbia fatto saltare in aria “l’ottimismo della fine della storia”, quello che ci ha fatto credere che più mercato e meno Stato ci avrebbero portati in paradiso, i principi di un’economia che dovrebbe essere guidata da interessi egoistici rimangono intatti. E ancora una volta chiediamo allo Stato (o all’Ue) di ripristinare non solo i controlli e le politiche di contrappeso (necessarie), ma un ordine impossibile nell’era della globalizzazione. 

Forse questa impotenza, in buona parte è conseguenza di una mancanza di capacità critica nel riconoscere ciò che già esiste. La Spagna è rimasta in piedi durante gli anni più duri attraverso una disposizione alla cooperazione reciproca nel mondo delle imprese e a una rete di solidarietà sociale che non possono essere considerati fattori marginali, ma piuttosto il cuore dell’energia necessaria con cui si è ripartiti, sia nel settore profit che in quello no-profit. I drastici tagli dei salari – al di là dei limiti stretti della contrattazione collettiva – per salvare le aziende, le reti di aiuto primario (familiari e di enti non profit), il modo in cui sono stati avviati progetti per l’internazionalizzazione, la ricerca di nuove forme di reciproca fiducia, la sopravvivenza di alcune reti sociali e la creazione di nuove, l’esistenza di un capitale sociale che resiste alla forte erosione sono forse la miglior prova che non siamo necessariamente lupi gli uni per gli altri. L’ultima crisi ha dimostrato che nella lotta per il benessere ci sono desideri di cooperazione e socializzazione che sistemano e correggono l’inclinazione verso un egoismo che qualcuno considera la regola ultima.

Abbiamo bisogno, come europei e come spagnoli, di stimare la nostra esperienza di cooperazione e socializzazione. Questa esperienza non può restare una misura di emergenza. Stimarla significa trasformarla in criterio da usare per la lunga lista di riforme pendenti: istruzione, politiche demografiche, sistema pensionistico, produttività, sviluppo di nuovi settori, promozione della ricerca…