Con l’ora legale torno dal lavoro che è ancora chiaro e da un po’ di giorni, prima di entrare in casa, devo compiere una piccola cerimonia: raccogliere le camelie cadute. Nelle poche aiuole del cortile ce ne sono cinque pianticelle; quando ancora faceva freddo, ma evidentemente loro presagivano che la primavera stava arrivando, già vedevo tra le foglie carnose dei grossi boccioli color verde chiaro sulla cui cima trapelava un alone di rosso. Arrivato il caldo, le camelie si sono messe letteralmente a sparar fuori decine e decine di fiori che nei primi giorni avevano la forma di piccoli calici e poi si aprivano, si aprivano, si aprivano splendendo in tutta loro grandezza, simili alla dantesca rosa che il sole fa schiudere per “quant’ella ha di possanza”. Era uno spettacolo vedere questi cinque cespuglietti ricoprirsi dei loro vigorosi fiori rossi.

Una sera – non è stata una sorpresa, sapevo bene che doveva capitare – vedo ai piedi di ogni pianta due o tre camelie cadute. Le raccolgo perché stanno male lì a terra, che poi le si schiaccia oppure vengono le formiche a perlustrare il cadavere: chissà mai che ci sia qualcosa da prendere e portar via per l’inverno. La sera dopo di camelie rosse a terra ce n’erano di più; sembravano dei cuori che avessero smesso di battere, annunciavano perentorie che la primavera appena iniziata sarebbe inesorabilmente finita, un anticipo di autunno, un memento mori per tutti: per i fiori del vicino gelsomino che aspettano ancora di sbocciare e per noi umani che godiamo il tepore della primavera e magari ci illudiamo che possa essere eterna.

In un celebre brano dello Zibaldone Leopardi dice che non solo gli uomini, ma anche gli animali e persino le piante sono “infelici di necessità”. Esemplifica: “Entrate in un giardino di piante, d’erbe e di fiori. Sia pur quanto volete ridente [come il mio]. Sia nella più mite stagione dell’anno [questa]. Voi non potete volger lo sguardo in nessuna parte che voi non vi troviate il patimento”. Non solo il patimento dei fiori che cadono, ma anche quello che le piante si provocano a vicenda o che subiscono dagli animali. La descrizione leopardiana è funzionale alla dimostrazione dell’assunto con cui inizia il brano dello Zibaldone: “Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è male; che ciascuna cosa esista è un male” eccetera. Eppure, mentre celebro la mia serale cerimonia funeraria per i fiori di camelia morti in giornata, non penso che loro sono un male. Hanno vissuto, hanno prodotto semi che potranno continuare la specie, hanno offerto un rosso spettacolo di bellezza agli occhi umani, qualcuna di loro è persino servita come omaggio floreale ad un’immagine sacra. Lo stesso Leopardi, nel medesimo pensiero, ammette che non potrebbe dichiarare che quello in cui viviamo, quello con giardini pieni di patimenti, è “il peggiore degli universi possibili”. Perché: “Chi può conoscere i limiti della possibilità?”. Non credo che pensasse alla possibilità del bene, eppure proprio essa è la più desiderabile, perché la vita – qualcosa in noi lo grida visceralmente anche se poi il cervello conclude in altro modo – è meglio (cioè più bene) della morte.

Forse per questo, gettate le camelie vado a controllare l’aiuola dove da qualche settimana è stato piantato un ulivo; fino all’altro ieri mi sembrava che non avesse attecchito e che stesse seccando. Ma poi ho visto piccolissimi germogli “all’ascella delle foglie” direbbe Péguy, e mi sono tranquillizzato: l’ulivo è vivo e questo è “più bene” che non il suo seccarsi. Prosegue Péguy: “La mia piccola speranza non è altro che quella piccola promessa di gemma che s’annuncia proprio all’inizio di aprile”.