La prima anticipazione lanciata ieri pomeriggio sul DEF poi approvato dal Consiglio dei Ministri ha riguardato uno stanziamento di 2,8 miliardi per aumenti retributivi medi di 85 euro al mese ai dipendenti pubblici. Un importo fra i i 2 e i 3 miliardi è anche la stima d’incasso per la vendita di una seconda tranche di azioni di Poste Italiane: un’operazione di prima importanza nell’agenda-privatizzazioni, già un programma lo scorso autunno. Un’operazione che però difficilmente sarà realizzata nel 2017, guardando alle resistenze pre-elettorali espresse quotidianamente non solo dal segretario del Pd Matteo Renzi.



Un nuovo collocamento di Poste in Borsa andrebbe in teoria a fnanziare non nuova spesa corrente, ma il taglio del debito pubblico: al di sotto della linea rossa del 130% sul Pil (una soglia che pure, dal DEF fresco di stampa, sembra rigida: almeno alla fine di quest’anni). Lo stesso Documento conferma il capitolo “privatizzazioni”, ma parecchio  indistinto nel “libro dei sogni” del Piano nazionale di riforme. E’ noto, d’altronde, che l’estensore del DEF, il ministro dell’Economia Piercarlo Padaon, non solo darebbe luce verde all’operazione Poste appena possibile, ma vi aggancerebbe un primo assaggio di privatizzazione delle Ferrovie. Su quest’ultima ipotesi, tuttavia, ha già dovuto registrare il no del ministro delle Infrastrutture Del Rio. Il quale invece sta rilanciando solo sugli investimenti legati al trasporto ferroviario.



Le cifre, in ogni caso, parlano in termini tanto realistici quanto duri. Lo scenario disegnato dal DEF prevede una crescita annua del Pil di poco superiore all’1%,  destinata a restare piatta per il biennio successivo. Appare quindi problematico che il rapporto debito/Pil si alleggerisca almeno un po’ per l’aumento del denominatore. E se il numeratore continua a non scendere i conti pubblici italiani rimarranno sorvegliati speciali della Ue: com’è stato dopo la legge di stabilità 2017, faticosamente approvata ai supplementari solo dopo le garanzie date da Padoan all’ultimo Ecofin di Malta sulla “manovrina” da 3,4 miliardi.



Se dal governo italiano non giungeranno chiari segnali di impegno sul taglia-debito, ogni tentativo di recuperare flessibilità sul versante della spesa corrente (o anche dii investimenti straordinari nel post-terremoto o nell’emergenza-migranti) si annuncia velleitario: con il rischio permanente di dover improvvisare ogni semestre “manovrine” come quella approvata ieri sera, con tasse sui tabacchi e finanza creativa sull’Iva degli enti pubblici.

La “manovrona” – quelle che fra l’altro deve scongiurare definitivamente l’aumento “di salvaguardia” delle aliquote Iva – resta ancora tutta da fare: proprio a cominciare dal dossier-privatizzazioni. Per mitigare l’effetto-immobilismo il Governo (lo ha accennato ieri il premier Gentiloni) sta valutando un’operazione di ingegneria finanziaria: la concentrazione di tutte le le partecipazioni statali quotate (Eni, Enel, Poste, Terna, etc) nella Cassa Depositi e Prestiti, con la prospettiva di cederne una quota di minoranza a grandi investitori internazionali. L’ipotesi è tuttavia complessa e include il mantenimento del controllo statale delle aziende attraverso la trasformazione definitiva della Cdp in “nuova Iri”. I tempi realizzativi appaiono incerti e l’incasso sarebbe pobabilmente inferiore a quello realizzabile con nuovi passi privatizzatori lineari. Sarebbe, soprattutto, poco spendibile in Europa il segnale politico-economico che si annuncia necessario allorché – dopo le prossime elezioni francesi e tedesche – si aprirà il cantiere di riforma della Ue “a prima velocità”, cioé dell’Eurozona.

E’ comprensibile che – in vista delle elezioni politiche di inizio 2018 – una maggioranza di governo faccia i conti con gli umori dell’elettorato. Ma all’inizio del 2018 un Paese che in giugno ospiterà il G7 non può più essere condizionato dal peso politico-sindacale dei dipendenti di Poste e Ferrovie. Che sollecitano spesa pubblica e nel contempo frenano il taglia-debito.