Francesco si recherà a fine mese in un Egitto in cui lo jihadismo di ultima generazione, guidato dall’Isis, ha riconosciuto il suo fallimento. Le televisioni che trasmetteranno le immagini del Papa per le strade del Cairo sono le stesse che da anni fanno sentire la voce di intellettuali e opinion leader che chiedono un Islam aperto alla modernità. Un Islam disposto ad accettare una qualche separazione tra religione e politica. L’Egitto è diventato ora più che mai la terra dei martiri copti perché l’Isis si sente frustrato nel suo tentativo di diffondere la violenza settaria.
Gli attentati della Domenica delle Palme, del dicembre scorso e la pulizia etnica che l’Isis ha effettuato nella penisola del Sinai (150 famiglie sono state espulse dalle loro case) sono parte di una nuova fase ben diversa nella persecuzione dei copti. I morti tra dicembre (25) e aprile (44) sono molti di più rispetto ai massacri precedenti: 28 morti a Maspero (ottobre 2011) e 22 ad Al-Qiddisine (gennaio 2011). Il cambiamento non è però solo a livello di cifre.
Fino agli anni ’80, la situazione dei copti in Egitto era relativamente tranquilla, in una sorta di regime di libertà limitata. La svolta di Sadat verso l’islamismo ha cambiato le cose. E dal 2000 sono cominciati degli attentati frequenti. Nella parte finale del suo governo, Mubarak ha lasciato ai Fratelli musulmani il controllo di molte moschee e dell’istruzione, cosa che ha aumentato la violenza settaria. Questa penetrazione in una parte della società è stata fondamentale quando è arrivata la rivoluzione del 2011. I Fratelli musulmani hanno avuto fretta di impossessarsi di una rivoluzione di cui non erano stati protagonisti. E hanno dovuto colpire un bersaglio facile (i cristiani) quando le manifestazioni di massa hanno tolto loro il potere.
Tuttavia, nonostante la persecuzione aumenti, non si riesce a distruggere quella che Mokhtar Awad, ricercatore presso la Georgetown University, chiama “la relativa coesione della società egiziana”. I copti continuano fare politica, a fare affari, a mantenere relazioni normali con una parte importante della popolazione musulmana. La sua presenza incoraggia al-Sisi a chiedere ad al-Azhar di riformare l’Islam. È difficile pensare che senza i copti in Egitto la grande moschea di riferimento per il mondo sunnita potesse avere a febbraio un incontro con una delegazione del Vaticano e tenere poi una conferenza sui temi della libertà, della cittadinanza, della diversità e dell’integrazione. Conferenza che si è conclusa con una dichiarazione sulla coesistenza islamico-cristiana. È stato un altro passo in un processo che dura da anni e che, con tutti i suoi limiti, costituisce un’apertura importante.
Questa “anomalia egiziana” è ciò che esaspera l’Isis. Nel 2014, Abu al-Harmasy Mawdud, uno degli ideologi dell’Isis, ha pubblicato un opuscolo intitolato “I segreti dell’enigma egiziano”, dove sostiene che i musulmani egiziani “non capiscono qual è la vera lotta”. È necessario, secondo quest’uomo, attaccare i cristiani ovunque e comunque perché la jihad abbia successo come in Iraq, Siria e Yemen. La verità è che, nonostante l’introduzione dell’islamismo da decenni, l’Isis non ha trovato una “coscienza matura” che possa essere risvegliata dalla “avanguardia rivoluzionaria”. Non bisogna dimenticare che il neo-califfato per la propria battaglia usa le stesse categorie del marxismo-leninismo. Gli attentati di dicembre e di questo mese vogliono rappresentare “accelerazioni” delle contraddizioni, come lo sono stati i primi passi della Rivoluzione russa.
L’Egitto è cruciale per un’egemonia effettiva in Medio Oriente. Tutti i cambiamenti rilevanti che si sono verificati nel mondo arabo a maggioranza sunnita nel corso dell’ultimo secolo (la rivoluzione liberale, il panarabismo socialista, l’utopia fondamentalista), sono passati attraverso il Nilo. Finora la pluralità della società egiziana, la sua ricchezza politica e culturale, ha impedito il trionfo del “soviet” dell’Isis. I copti sono meno disposti che mai a diventare un ghetto residuale. Ma la storia progredisce molto rapidamente, la crisi economica è molto acuta e la scommessa dell’Isis per destabilizzare al-Sisi può avere successo. Il Presidente egiziano ha bisogno di capire che la sua lotta contro l’islamismo non dovrebbe vanificare il desiderio di cambiamento e di libertà dei giovani. E l’Occidente dovrebbe rendersi conto che non è conveniente essere contro al-Sisi, ma a suo favore, spingendolo a fare la necessaria transizione.