La cosa più stupida che si possa pensare è di “farsi da sé”. Me ne sono ricordato qualche sera fa, quando ho rivisto Klaus Haagen, il mio amico, professore di statistica che mi ha formato, non solo scientificamente, ma anche umanamente. Posso dire che senza di lui io non sarei quello che sono. A più di settant’anni, la sua grandezza umana è intatta e, per tutti coloro che gli sono intorno, Klaus è un grande esempio da guardare, come per tanto tempo è stato per me, fino a che ho avuto l’opportunità di frequentarlo. Originario della Slesia, dopo aver studiato all’Università di Monaco e in quella di Ratisbona, si è specializzato in America e presto si è inserito nel giro mondiale degli statistici. Insofferente alla rigidità del mondo accademico tedesco, per mia fortuna, a metà anni Settanta si è trasferito a Trento, dove ha insegnato in università fino alla pensione e dove risiede ancora. Quando l’ho incontrato ero un dottorando senza arte né parte che seguiva le sue lezioni nell’università trentina.
Non sapevo dove sbattere la testa e come orizzontarmi nei miei incerti inizi con la statistica. Lui mi ha preso in simpatia e mi ha aiutato oltre ogni limite. Rimanevo affascinato dalle sue lezioni sull’analisi fattoriale e sulle variabili latenti. Era come se mi svelasse la password per accedere a un mondo sconosciuto. Si appassionava mentre ci dimostrava che alcune teorie in voga non avevano validità e, in realtà, già vent’anni prima, erano state confutate. Si scagliava contro la mancanza di onestà intellettuale che impediva di ammetterlo. Così non ho avuto dubbi quando decisi di fare la tesi di dottorato con lui. Con pazienza si mise al lavoro con me, spiegava e correggeva passo passo le mie lacune.
Non lesinava mai il tempo che mi dedicava. Guidandomi, riusciva a mostrarmi tutto il fascino della materia che trattavamo. Non solo riuscii a discutere brillantemente la tesi, ma dopo poco tempo, con il suo aiuto, potei pubblicare alcuni risultati su riviste scientifiche internazionali. Nessun opportunismo accademico fermava il suo desiderio di verità. E per questo era disposto a intraprendere qualunque sfida. Organizzò un workshop di livello mondiale in cui invitò grandi luminari, sostenitori di quelle concezioni palesemente superate. Il dibattuto fu di altissimo livello e lì ebbi l’opportunità di vedere con i miei occhi come un’ideologia può diventare arroganza quando sceglie il potere e rifiuta di accettare la verità. Un insegnamento che mi è stato utile in molti momenti della vita. A quel tempo comunque ero un ricercatore in erba dietro a uno statistico bravo e di successo. Il destino, che a quel momento sembrava essere incentrato sull’accademia, decise di allargare presto i nostri orizzonti e cambiò radicalmente il nostro cammino.
A 37 anni Klaus si era ammalato di una forma molto violenta di Parkinson che pian piano aveva limitato i suoi movimenti. Oltre che uno scienziato, è sempre stato un grande atleta e un grande scalatore: aveva affrontato con successo anche alcune delle vette dell’Himalaya. Era inoltre un bravissimo fotografo, i cui lavori avevano già dato vita a tante mostre. Tutta questa ricchezza di vita sembrò sparire. Ma è a questo punto che vidi davvero emergere l’uomo: mai mollare, sempre sfidare l’impossibile. Continuò a fare ricerca e a praticare lo sport, pur nella misura del possibile. Mi ricordo che quando andavo da lui a lavorare potevo trovarlo in forma, geniale e brillante come sempre, dopo aver passato il giorno precedente in mountain bike sul monte Bondone, oppure bloccato dalla malattia nella vasca da bagno senza nemmeno riuscire ad aprire la porta. Su una cosa però non è mai cambiato: l’amicizia profonda, totale e disinteressata che sa offrire. La sera in cui mi stavo preparando per l’esame di associato che avrei sostenuto il giorno dopo, mi raggiunse inaspettatamente a Roma.
Tremante per la malattia, voleva darmi una mano. Un gesto incredibile, al di fuori di ogni logica accademica. Il suo è stato un atto di gratuità assoluta in cui ha messo da parte se stesso. La progressiva incapacità di muoversi è diventata per lui l’occasione di scoprire la realtà in modo diverso. Bloccato sulla sedia a rotelle non abbandonò la passione per la fotografia e rivolse l’obiettivo verso delle bottiglie di plastica colpite dalla luce. Alcune ricordavano le foto dell’Everest. Lui una volta commentò: prima giravi per il mondo cercando la bellezza, adesso non ti muovi più dalla sedia ma ti accorgi che vicino a te c’è la stessa bellezza, quella bellezza che prima non notavi. Ogni cosa per Klaus è una sfida e un’opportunità. Anche la malattia. Dopo aver tentato tutte le strade possibili per curarla, decise di sottoporsi a un’operazione chirurgica sperimentale, una delle prime dieci fatte nel mondo, che consisteva nell’introdurre nel cervello, attraverso un pacemaker, la dopamina che il corpo produce in quantità insufficiente a causa del Parkinson.
Dieci ore di operazione condotte solo con anestesia locale, in cui doveva rimanere sveglio e che ebbe il coraggio di raccontare in un libro per incoraggiare i malati come lui a rischiare e a non arrendersi. Da quel momento in poi, dedicò molto tempo alla ricerca sul Parkinson. Oltre che per curare se stesso, voleva aiutare la scienza a progredire. La convivenza con la malattia intanto proseguiva e gli rendeva sempre più difficile parlare. Ci conviveva però, grazie ai risultati dell’operazione e al suo indomabile desiderio di vivere. Fu questo che colpì profondamente don Luigi Giussani quando lo incrociò in un suo breve soggiorno in ospedale. Guardandolo con ammirazione, spesso mi chiedevo: quanto ama la vita un uomo che per più di un’ora si esercita per cercare di scavalcare un ostacolo con le gambe malferme? Quello stesso desiderio prorompente di vivere che apparentemente veniva frustrato, invece di chiuderlo, lo aprì a nuove amicizie. Persone con cui ancora oggi condivide la sua vita: una nuova famiglia allargata, un segno di come la malattia può costruire un’umanità più vera e autentica.
Oggi, splendido e silenzioso uomo, continua nella sua avventura umana, coraggiosa e indomita, a mostrare a tutti noi come sia possibile non farsi vincere dall’incattivimento e dalla disperazione. Come dice un salmo: tutta la gloria della figlia del re viene da dentro. Qualche giorno fa su Repubblica è stata pubblicata la lettera di un’adolescente rivolta alla “categoria” genitori. La ragazza accusa sostanzialmente gli adulti di preoccuparsi dei loro figli solo a livello superficiale: “studiare, nutrirsi, vestirsi, lavarsi, pulire, non fare uso di nulla che possa danneggiarti fisicamente, non tornare tardi a casa. Eccoli, i sette comandamenti tradizionali”.
E si chiede se qualche volta i genitori si domandino cosa i loro figli provino, se hanno piacere a sentire un ragazzo parlare di sé. Ecco, io mi auguro che oltre a dialoghi più profondi, i giovani si mettano a cercare persone come Klaus, che sanno credere nella vita, che hanno il coraggio di affrontarla anche in condizioni estreme, e la passione di comunicarla. Mi auguro che cerchino persone così e che abbiano la fortuna, come è capitato a me, di trovarle.