Alitalia. L’ennesima “emergenza Alitalia” – precpitata a nelle ultime ore con il no dei dipendenti a un accordo sindacale di salvataggio e l’avvio delle procedure di commissariamento – è l’effetto, non la causa della “crisi Alitalia”. Che la compagnia di bandiera italiana non sia più competitiva è noto da più di un decennio: dal tentativo di alleanza con Air France-Klm, all’intervento dei “capitani coraggiosi” italiani di Cai fino all’ingresso di Ethiad, due anni fa. Nessuno piano è mai riuscito a evitare che Ryanair diventasse, nel 2016, il primo vettore utilizzato da passeggeri in partenza da aeroporti italiani. Nessuna strategia di rilancio ha mai puntato su voli no-stop fra la Cina e Venezia. Nessun orgoglio aziendale o nazionale ha difeso – sul piano della qualità e concorrenzialità – il volo quotidiano fra Malpensa e New York, re-inventato da Emirates nella staffetta-Expo fra Milano e Dubai.



La crisi Alitalia è questa ed è industriale. Non è legata alla resistenza delle banche a ripianare le perdite con nuovi capitali, né alla presunta disattenzione del governo per una società privata che opera in libera concorrenza; neppure al declino dei meccanismi di rappresentanza sindacale. Ora sarà compito dei commissari scrivere i capitoli successivi a una soluzione di continuità traumatica, ma non casuale. Né priva di precedenti.



All’inizio dell’ultima emergenza Alitalia, abbiamo ricordato sul Sussidiario come due compagnie di bandiera europee (la belga Sabena e l’elvetica Swissair) siano fallite all’indomeni dell’11 settembre 2001. Sono finite in default da un giorno all’altro: senza estenuanti trattative con governi e banche, senza referendum fra i dipendenti. Hanno pagato entrambe la somma di errori strategici e debolezze accumulate negli anni: nonostante Sabena avesse il suo hub nella capitale della Ue e Swissair nello storico forziere offshore del pianeta. Per ambedue, la causa di morte ultima è stata una gestione troppo lunga come compagnie nazionali di bandiera: incapaci, per molte ragioni, di rispondere sia alla pressione crescente del low-cost sia a quella dei nuovi vettori nati con strategia globale (come la stessa Ethiad, ultimo partner-puntello di Alitalia).



Nè Sabena né Swissair sono tuttavia state cancellate dal fallimento. Entrambe sono rinate, in fretta: oggi si chiamano Brussels Airlines e Swiss. Per ambedue è stata adottata la soluzione new company. Una nuova società, con nuovi azionisti, ha rilevato dalla liquidazione aerei, rotte, dipendenti: naturalmente a condizioni nuove, compatibili con il progetto di rilancio di una compagnia privata. Sia Brussels che Swiss sono oggi agganciate al gruppo Lufthansa: forse l’unica “compagnia di bandiera” europea che abbia saputo crescere nella competizione globale.

“Alitalia, la rotta è in Europa”. Dopo tre mesi ci è difficile cambiare titolo. Ci è difficile anche perdere la fiducia che il residuo “valore Alitalia” (ce n’è ancora) possa essere riversato in una nuova azienda. dove non sarebbe scandaloso investissero inizialmente anche soggetti pubblici. Non solo la Cassa Depositi e Prestiti (non comunque in veste di “nuova Iri”): ma anche ad esempio le Ferrovie dello Stato, meglio se a loro volta messe in movimento da un avvio di privatizzazione. Oppure gestori di grandi infrastrutture di trasporto.

La “fine dell’Alitalia” non è la fine di tutto: neppure per Alitalia. Non va negata, va affrontata in tutta la sua durezza. Oggi Alitalia è la metafora di un Paese che – ripetono da anni gli economisti – è in crisi strutturale di produttività, di fiducia, di capacità di attrarre capitali sulle proprie grandi imprese. Da domani Alitalia può essere il nome di un turnaround che crea valore anche attorno nel Paese. In un Paese che resta la quinta meta turistica del pianeta e il secondo sistema industriale europeo, per una vecchia compagnia di bandiera evidentemente non c”è più spazio. Ma per un nuovo vettore aereo (forse) sì.