La vicenda di Alitalia è solo l’ultimo e forse più emblematico esempio di un guado che il nostro Paese sta attraversando. Su queste pagine sono già stati raccontati i passi che hanno portato l’ex compagnia di bandiera al quasi commissariamento in cui si trova ora: dichiarata un “asset strategico”, non è però mai stata davvero difesa come tale dallo Stato, con piani industriali di alto livello e di trasparente gestione.



Per capire un po’ meglio il caso Alitalia, ma non solo, è utile chiarire alcuni punti del retroterra culturale in cui queste vicende si collocano. Innanzitutto è bene ricordare che la presenza dell’impresa pubblica, in quasi tutto l’Occidente, è stata il “figlio” naturale di un’antica risposta al libero mercato che nell’Ottocento aveva creato ricchezza, ma anche disuguaglianze sociali che laceravano spaventosamente le società, esponendole a continue sommosse sociali.



Già dopo la crisi del ‘29 del Novecento, molti economisti, tra cui John Maynard Keynes, Joseph Schumpeter e poi una serie di keynesiani come Kenneth Galbraith fino a Hyman Minsky, il profeta della crisi del 2007, erano intervenuti per correggere le contraddizioni del capitalismo. Galbraith poteva dire, ancora negli anni Ottanta, che nei paesi liberi e democratici c’è sì il mercato, “ma non solo: è il mercato corretto da Keynes, più il sindacato, più le leggi antitrust, cioè il mercato in larga misura. Anche se [corretto] in modo non ancora sufficiente, nei suoi principali limiti e difetti”.



Quando crollò il Muro di Berlino, in tutto l’Occidente ricomparve un’ondata neoliberista. Divenne obsoleto persino il concetto di politica economica e di politica industriale. Si passò all’esaltazione acritica delle privatizzazioni e del “mercato su tutto”. La necessità di un arretramento dello Stato, di avere “più società e meno Stato” era avvertita da tutti in Occidente e infatti si pensava di passare, in media, dal cinquanta percento di presenza statale in economia a un trenta percento.

In Italia però, la ventata neoliberista, sponsorizzata in molti editoriali, fu impressionate. Vennero messe in cantiere privatizzazioni di ogni tipo, perse valore ogni settore industriale strategico. “Telecom e Autostrade vanno privatizzate”, si proclamò ai tempi del primo governo Prodi. Andavano privatizzate nel presupposto ideologico che il binomio privatizzazione/liberalizzazione portasse di per sé benefici anche per i consumatori e non solo per gli investitori.

L’Italia non fece neppure i conti su alcuni settori che potevano essere strategici e su cui mantenere almeno una consistente partecipazione statale (“golden share”), come il settore del credito, della logistica, della chimica di base, dell’acciaio, e di tanti altri. E così ci troviamo ancora oggi a confrontarci con il guado di un pensiero economico poco all’altezza delle sfide della realtà. La realtà della crisi e quella della storia che deve pur essere maestra di qualcosa, soprattutto nei momenti in cui le scelte adottate dimostrano la loro inconsistenza.

Alcuni recenti esempi chiariscono meglio la situazione. In questi giorni il governo sta faticosamente tentando di arginare la posizione di controllo assunta da Vivendi (Bolloré) in Telecom. Dopo quattro proprietà italiane, Telecom a controllo Vivendi rischia di essere trasferita a Orange (France Telecom, tuttora controllata dallo Stato francese). La privatizzazione e la successiva Opa (che ha prosciugato le risorse finanziarie interne a Telecom Italia) hanno privato il sistema-Paese della sua principale piattaforma tlc: quella che aveva generato Tim, pioniere nella telefonia mobile in Europa). Il governo sta privilegiando Enel (un operatore non-tlc) per realizzare il piano Banda Larga 2020 e colmare la disuguaglianza nell’accesso alla rete e nell’uso delle tecnologie dell’informazione in Italia. Non era meglio evitare la privatizzazione secca e integrale di Telecom?

Ora si invoca comunque l’intervento della Cassa depositi e prestiti per “ripubblicizzare” la rete fissa Telecom e rimetterla in gioco per la banda larga “per tutti”: a certe condizioni può funzionare. Dare pari opportunità e “vantaggio competitivo collettivo” sull’internet veloce a studenti e nuovi imprenditori è interesse pubblico e può giustificare un investimento pubblico.

Altro esempio. Sempre in questi giorni Atlantia (Benetton) sta definendo l’aggregazione fra Autostrade e la spagnola Abertis. L’operazione era già stata tentata dieci anni fa: stoppata da Prodi, che nel primo mandato da premier aveva privatizzato le Austostrade presso i Benetton con la stessa narrazione: imprenditori privati (per di più di nuova generazione) avrebbero gestito un ex monopolio pubblico nelle infrastrutture con più efficienza e dinamismo strategico rispetto allo Stato. Invece tutto si è risolto nel semplice trasferimento di una “fabbrica di pedaggi”: già nel 2007 i Benetton avrebbero venduto senza problemi agli spagnoli, oggi l’operazione è solo studiata in maniera più finanziariamente estetica. E questo avviene dopo gli ennesimi crolli di viadotti (uno mortale sulla A14 a Castelfidardo, rete Autostrade): all’estremo opposto del “volano di sviluppo e modernità” immaginato per la privatizzazione di una grande infrastruttura.

E per ultimo, un caso virtuoso. A inizio aprile Fincantieri (Fintecna, Stato) si è accordata con lo Stato francese per rilevare il cantiere di Saint Nazaire, detenuti da una società coreana fallita. Nasce “l’Airbus dei mari” (60% delle costruzioni crocieristiche mondiali). Fosse stata privatizzata forse anche Fincantieri sarebbe finita cinese o coreana e chissà come. Tenuta come investimento pubblico è riuscita a tenersi a galla e ora a crescere: la grande cantieristica è innovazione tecnologica, è carta spendibile da un sistema-Paese. Perché non dovrebbe essere un esempio significativo di una strada da seguire?