Quei voucher 2.0 in terra di nessuno

La riforma dei voucher ha lasciato diffidente il mercato del lavoro: poco convinto dai limiti ispirati più da ragioni politiche che da reali logiche anti-disoccupazione. GIANNI CREDIT 

La cosiddetta “riforma dei voucher” varata dal governo è stata una risposta forzata e affrettata alla decisione della Corte Costituzionale di ammettere al referendum uno dei tre quesiti proprosti dalla Cgil: quello che, appunto, chiedeva l’abolizione dei “vecchi voucher”, considerati uno strumento di lavoro flessibile abusato e superato.

Per evitare una nuova tornata referendaria – su un tema sensibile, al cuore del Jobs Act – l’esecutivo ha costruito “nuovi voucher” a maglie più strette. D’ora in poi sarà obbligatorio usarli “a giornata” e non più “ad ora”; sarà consentito un solo job on call in aziende artigiane o esercizi commerciali; i “voucher 2.0” saranno più contrattualizzati e incorporeranno un maggior contenuto di diritti (ferie, malattia, etc). E’ stata introdotta una sola misura espansiva: la cancellazione dei limiti d’età (meno di 25 anni e più di 45 anni) per i lavoratori utenti dei voucher. Il pacchetto è stato in ogni caso etichettato come “abolizione dei voucher” dalla maggioranza degli osservatori e ha lasciato diffidente il mercato.

Sono stati numerosi gli allerta su possibili ritorni del lavoro nero e – nei giorni in cui l’Istat ha certificato una disoccupazione giovanile ancora superiore al 35% – ben pochi hanno visto nei nuovi voucher” una risposta aggiornata a un’emergenza strutturale. Non è mancato chi ha scorto un vero e proprio fake di politica del lavoro: un contraccolpo passivo di schermaglie politico-sindacali che poco o nulla hanno a che fare con la crisi del lavoro giovanile.

Abbiamo segnalato per tempo sul sussidiario quanto i voucher apparissero a rischio di polveroni politici, già prima che la Corte costituzionale si pronunciasse sui referendum. Corretto, certamente, verificare l’uso appropriato dei voucher e fare eventualmente manutenzione su regole e attività ispettiva. Scorretto e pretestuoso giocare politicamente su uno strumento la cui problematicità non appariva drammatica. Ancora all’inizio del 2017 il voucher non era sinonimo di flessibilità selvaggia (l’equivalente annuo di circa 50mila occupati a tempo pieno nell’anno, meno dell’1% della forza lavoro totale). Appariva invece un veicolo ancora interessante per l’occupabilità “in chiaro” di lavoratori come gli agricoli stagionali o le babysitter.

Adesso è l’ora di “voucher 2.0”: in una zona grigia fra l’abolizione e l’evoluzione, in una terra di nessuno nella quale nessuno sembra volersi addentrare con sicurezza ed entusiasmo. Un provvedimento teoricamente ispirato alla tutela del lavoratore rischia ora di togliere tutela reale a frange di occupazione oggi preziose più che mai. L’unica opportunità offerta dalla messa dei voucher in terra di nessuno sembra quindi l’accelerazione sulla ricerca di vere uscite in avanti per la crisi dell’occupazione giovanile. Svolte che non possono più negare la flessibilità come leva strategica del Jobs Act per residue ragioni ideologiche o momentanee tattiche politiche. I mini-jobs in Germania sono 7 milioni: quando in Italia la politica del lavoro riuscirà finalmente a “spostare” milioni di (giovani) occupati?

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