NEW YORK — Qualche giorno fa mi è ricapitata sott’occhio una pubblicità televisiva dell’Ibm di un annetto fa in cui Watson – un mega computer – si intrattiene con Bob Dylan e dialogando gli fa sapere che avendo letto tutte le sue lyrics ha scoperto che i temi amati, quelli più ricorrenti nelle canzoni del cantautore americano sono il tempo che passa e l’amore che svanisce. Non che Dylan da questo punto di vista abbia inventato nulla di nuovo.

Che il tempo passi è semplice da rilevare, ma non necessariamente facile da accettare. Si può benissimo arrivare a sessantadue anni e concepirsi ancora come un venticinquenne – nel bene e nel male – tranne quando capita di vedersi riflesso in uno specchio transitandoci davanti, quando ci si trova circondati da nipotini o ancora quando, come una profezia della giornata, ci si tira su dal letto al mattino accusando una varietà di dolori articolari. Possiamo sempre ostinarci ad affermare di essere “giovani dentro”, ma l’evidenza del tempo trionfa, che ci piaccia o no, che lo si ammetta o meno.

Anche l’amore che svanisce sembra essere esperienza comune e ricorrente. Se parliamo di sentimenti, si sa che questi vanno e vengono – più spesso vengono per un attimo per poi andarsene (presto) per sempre. Finché il cuore si inaridisce.

Provando un po’ tutti quel che prova Bob Dylan, quello che da sempre gli uomini che sono stati capaci di esprimerlo hanno espresso nelle più varie forme, il passare del tempo e la fragilità dei sentimenti ci mettono addosso una irresistibile attrazione per le cose semplici. Qualcosa che possa darmi pace, riscaldarmi l’anima e che possa durare. Ma quali sono queste cose semplici? Difficile a dirsi. Le cose semplici non sono neanche facili da immaginare. Non c’è proprio niente di facile… Lungo il cammino della vita sia propria che della comunità, della formazione civile a cui si appartiene, tutto sembra farsi sempre più difficile. Proprio per questo vorremmo che tutto si semplificasse, sentiamo l’urgenza di scoprire queste cose semplici. Ma non sappiamo come. E siccome la semplificazione non avviene ed il senso di urgenza non trova risposta, l’unica soluzione che sembra restarci è estraniarsi dalla realtà.

Da due settimane mi porto dietro un numero di Time magazine. Ogni tanto lo prendo in mano. Quando riesco ad ignorare la copertina, per me decisamente “disturbing”, vado diritto all’articolo centrale, ma dopo un po’ devo smettere, non ce la faccio proprio. “Beyond He or She”, “Al di là di Lui e Lei”, titola la rivista. Una sorta di analisi fotografica, testimonianze ed immagini, delle ormai 60 articolazioni di gender che siamo riusciti a inventare fino ad oggi. Mi colpiscono particolarmente quelli che si definiscono “liquid”: oggi mi sento così, ma ieri mi sentivo cosà. E per domani vedremo.

Questa mattina invece mi sono ritrovato a leggere delle statistiche spaventose relative all’ormai smodato uso di oppioidi e oppiacei across America: 12 Stati in cui il numero di prescrizioni mediche di questi farmaci supera di gran lunga quello degli abitanti, ed oltre trentamila morti in un anno… In due anni queste sostanze hanno fatto più vittime di quante ne abbia fatte la guerra del Vietnam.

Volatilità di gender e abuso di droghe, due fenomeni apparentemente distinti, in verità due facce della stessa medaglia: l’incapacità di stare di fronte alla vita per quello che è, alla sua complicatezza che non vorremmo, al dolore che ci provoca e che vorremmo ci fosse risparmiato. Così ci buttiamo su una cosa – una! – che promette di farci dimenticare le altre, che promette di semplificare tutto. Una cosa che possa raccogliere assieme tutti i pezzi di quel puzzle privo di significato che è diventata la vita. E anche se queste nuove “cose semplici” non mantengono la loro promessa, anche se sminuiscono la bellezza dell’attrazione verso l’altro sesso (come nel marasma del gender), ed addirittura ci portano via la vita (come nel processo distruttivo delle droghe) tutto intorno a noi è invito a provare. A provarle. Due facce della stessa medaglia, apparentemente una l’opposto dell’altra, ma in verità la stessa radice: manifestazioni della nostra dipendenza da istinto di indipendenza, la schiavitù della irrealtà come esito della ricerca delle “cose semplici” che non riusciamo a trovare.

Eppure in questa frantumazione del mondo che frantuma l’io, e dell’io che non è capace di costruire, una grande cosa semplice resta possibile. Come ci ricorda Andrei Tarkovsky: “Lo sai bene: non combini niente; sei stanco, non riesci ad andare avanti. E all’improvviso incroci lo sguardo di qualcuno nella folla – uno sguardo umano – ed è come se fossi attratto verso una presenza divina nascosta. E all’improvviso tutto diventa più semplice”.

Funziona così, da sempre e per sempre.