“Maria!”. Solamente al sentire pronunciare il proprio nome lo aveva riconosciuto. Solamente dal modo con cui l’aveva chiamata. Eppure qualche istante prima aveva anche avuto modo di vederlo. Ma nello scombussolamento e anche nella paura di quel momento lo aveva scambiato per il giardiniere. Solamente al sentir riverberare il suo nome, aveva capito chi era quell’uomo. È ciò che racconta la pagina stupenda del Vangelo di Giovanni al capitolo 20, pagina su cui ieri papa Francesco si è soffermato in occasione dell’Udienza del mercoledì.
Papa Francesco ha insistito proprio su questo minimo dettaglio, che ha definito come “l’avvenimento più sconvolgente della vita umana”. Ha detto il papa: “L’evangelista Giovanni sottolinea quanto sia persistente la sua cecità (di Maddalena, ndr): non si accorge della presenza di due angeli che la interrogano, e nemmeno s’insospettisce vedendo l’uomo alle sue spalle, che lei pensa sia il custode del giardino”. E invece scopre l’avvenimento più sconvolgente della storia umana quando finalmente viene chiamata per nome. Essere chiamati per nome cioè essere accolti nel tutto del nostro essere. Anzi di più: sentire nella voce dell’altro, nel suo riverbero, una totale comprensione di ciò che siamo. Un abbraccio senza “se” e senza “ma”.
Per coincidenza una di queste sere mi è capitato di assistere alla coraggiosa e bella messa in scena di una delle ultime opere di Giovanni Testori. Si intitola Gli Angeli dello Sterminio ed è stato rappresentato al Teatro I di Milano. Ad un certo punto il narratore protagonista introduce una riflessione che riguarda proprio i “nomi”. Racconta come il suo dramma di uomo e di scrittore (che è in realtà il dramma di quel suo tempo: il nostro) è quello di non riuscire più a dare i nomi ai suoi personaggi. In effetti noi non sappiamo neppure il suo: è una perdita del nome che riguarda tutti gli uomini, naufraghi della storia e schiacciati da un meccanismo che li vuole tutti “a-nonimi”. Senza il nome è come se fosse stato rescisso anche il legame con il destino. Dice infatti il narratore-Testori: “Ricordo i tempi in cui… con stupore ogni volta si rinnovava l’assoluta coincidenza che quei nomi avevano con gli esseri a cui appartenevano… Quegli esseri non erano pensabili dotati d’altro nome e cognome se non quello che, in realtà, possedevano”.
Il nome ci è stato dato. Il nome è qualcosa a cui è stato affidato il compito di custodire ciò che siamo. Ancor oggi, nell’esperienza quotidiana, il sentirci chiamati per nome tante volte desta un senso immediato di sorpresa, di simpatia, di complicità. A volte un sussulto.
Ma è indubbio che uno sguardo che non s’accontentava, come era appunto quello di Testori, riscontrasse attorno a sé l’avanzare quasi di un mutismo. Una paralisi davanti al dover pronunciare il nome dell’altro, come per una paura ad implicarsi, come se si fosse colpiti dal virus di una sfiducia che alza diffidenza e muri attorno a noi. Il rischio storico che l’uomo corre, dice Testori, è quello del nostro io privato di nome. Staccato dal suo nome. E quindi staccato anche dalla relazione con la sua origine: perché il destino chiama ciascuno per nome.
Anche in quel sabato, nel luogo dove avevano sepolto Gesù, si erano diffusi mutismo, paura, tristezza. Addirittura anche scetticismo davanti al sepolcro vuoto: la prima ipotesi a cui crede Maddalena infatti è che fosse stato rubato il corpo del Signore. Anche lì il deserto avanzava. Eppure per sconfiggere il deserto bastò che Gesù pronunciasse quel nome. “E Gesù la chiama: ‘Maria!'”, ha concluso papa Francesco. “La rivoluzione della sua vita, la rivoluzione destinata a trasformare l’esistenza di ogni uomo e donna, comincia con un nome che riecheggia nel giardino del sepolcro vuoto”.