Due dei tre candidati alle primarie del Pd si sono detti favorevoli a una revisione più o meno radicale del Jobs Act. Dal terzo – l’ex premier Matteo Renzi – non era pensabile giungessero prese di distanze dall’unica vera riforma varata dal centrosinistra in cinque anni di governo. Tuttavia neppure il segretario del Pd, riconfermato alla vigilia della Festa del Lavoro 2017, sembra più troppo entusiasta di esibire la paternità del Jobs Act.
Il Renzi odierno – schierato a difesa dei 20mila posti fissi dell’Alitalia – sembra distante dal premier quarantenne che alla fine del suo primo anno a Palazzo Chigi riscriveva lo Statuto dei lavoratori. E lo faceva respingendo con decisione le accuse ideologiche di rottamazione dell’articolo 18, insistendo invece sul lavoro come percorso flessibile di esperienze, arricchimento continuo di compertenze, auto-educazione permanente. E spiegando che le “politiche attive del lavoro” sono un rinnovamento obbligato dei modi con cui uno Stato moderno promuove il matching di “nuovi imprenditori” e “nuovi lavoratori”: sul mercato, con agenti e strumenti aggiornati.
La ripresa economica e occupazionale, d’altronde. tarda ad arrivare alla vigilia della campagna elettorale e tutte le forze politiche e le parti sociali stanno facendo i loro conti: non solo il Pd di Renzi. Certamente è lui il destinatario del sondaggio Demos che – sulla prima pagina di Repubblica, per la firma di Ilvo Diamanti – gli ha imputato la “delusione” di due italiani su tre sul Jobs Act: italiani ancora ansiosi di celebrare il Primo Maggio come conquista del lavoro “sicuro”. Ma non solo per tattica pre-voto, anche un centrodestra sempre insufficientemente liberale si volta dall’altra parte rispetto al valore propulsivo del Jobs Act, ancora tutto da estrarre e riversare nell’Azienda-Paese. Per non parlare di M5s: campo d’accoglienza antipolitico per i disoccupati di ogni età e condizione, accomunati nel vedere la riforma come distruttrice di vecchie garanzie e non come creatrice di nuove opportunità (ma è un po’ difficile dar loro torto quando il 2 maggio 2017 il tasso interno di disoccupazione è risalito all’11,7 per cento).
Neppure fra le parti sociali, d’altronde, il Jobs Act sembra essere più un oggetto politico-economico di primo interesse. Non per i sindacati: quelli che hanno imposto una para-riforma ideologica dei voucher e che – caso Alitalia docet – vanno subito in sofferenza rappresentativa quando abbandonano il loro ruolo storico di controparte rigida, “di classe”. Non paiono sviluppatrici convinte del Jobs Act “strutturale” nemmeno le imprese, esauriti i benefici immediato della decontribuzione. Né la pubblica amministrazione sembra seguire: ma è nelle cose che sia disturbata dal netto riorientamento del collocamento e delle politiche attive verso le agenzie di mercato. E poi il Jobs Act deve misurarsi anche con il mosaico frastagliato delle Regioni. Nessuno, per finire, riflette su un fatto: se l’Italia ha avuto ultimamente un minimo di attenzione benevola da parte delle grandi istituzioni sovrannazionali (Ue, Bce, Fmi etc.) è perché ha potuto citare la riforma del mercato del lavoro.
Su un punto Renzi non ha mai avuto torto: in un’economia di mercato il Jobs Act di per sé non crea posti di lavoro, ma migliora le condizioni di efficienza ed efficacia del mercati, a vantaggio di tutti i suoi partecipanti. Avranno torto, quindi, tutte le forze politiche che alla vigilia del voto ignoreranno la riforma – o sbandiereranno ipotesi di controriforma – proprio quando il Jobs Act ha bisogno di essere definitivamente sperimentato. Anzi: ha diritto di giocare le sue chanche in un contesto economico più stabile e solido: possibile, probabile dopo la lunga stagione elettorale in corso in Europa. Può sembrare paradossale, ma si profila la stagione giusta perché gli italiani prendano coscienza che il posto fisso a vita del secolo scorso non esiste più, ma chi cerca un lavoro “dipendente” lo può ancora trovare e chi lo perde non ha più come destino quello di “cassintegrato a vita”. Quando il presidente Sergio Mattarella, il Primo Maggio, ha sollecitato un “riequilibrio” sul mercato del lavoro, è ben difficile che abbia auspicato un ripensamemto del Jobs Act. Come l’euro, è qualcosa da cui è realisticamente impossibile tornare indietro. Ci si può solo camminare guardando avanti.