La notizia resta per il momento ancora sotto traccia e confinata nei quotidiani locali. Ma è inevitabile che presto se ne discuterà con ampiezza e ripercussioni, sperando però, senza il solito schematismo. Si tratta del collasso di quattro importanti cooperative emiliane – di Reggio Emilia per la precisione – praticamente la “patria” italiana della cooperazione.
Le quattro cooperative in crisi erano dei colossi dell’edilizia. Sono la Coopsette, Unieco, Cmr e Orion, tutte del ramo delle costruzioni. Per le prime due c’è stata la liquidazione, per le altre si è arrivato a un concordato. Ma nell’insieme il calcolo è impietoso: 1500 posti di lavoro perduti e un salasso complessivo di 600 milioni di euro, con la conseguente, inevitabile, rinnovata discussione sulla natura delle cooperative emiliane, sul loro affiancamento a quello che è stato il vecchio Pci, sul loro collocamento all’interno di una Lega della Cooperative che è stata accusata spesso di essersi trasformata in una sorta di holding e di aver costituito, soprattutto in Emilia Romagna, uno sbarramento che mortificava qualsiasi concorrenza. A questo proposito le accuse del vecchio Bernardo Caprotti di Esselunga furono impietose.
Un ragionamento corretto su questa vicenda di Reggio Emilia e sul movimento cooperativo in generale dovrebbe tuttavia tenere conto di tanti aspetti e non portare a generalizzazioni, che alla fine rischiano di confondere principi e realtà tuttora valide, con aspetti economici congiunturali e con sviluppi storici particolari.
La forma cooperativa di produzione, che si caratterizza per una gestione comune e per lo scopo che non è lucrativo, ha connotato l’azione del nascente movimento operaio della metà Ottocento. Essa è il prodotto del movimento di ispirazione riformista che ha fatto del modello cooperativo la risposta migliore alla logica dell’impresa capitalistica che guarda esclusivamente al profitto.
In Italia, la sua lunga storia, ha creato cooperative di diversa “bandiera”: quelle socialiste e poi comuniste, quelle mazziniane-repubblicane legate a un particolare territorio (ravennate), quelle anarchiche (carrarese), quelle cosiddette bianche di origine cattolica che sono sparse in tutto il territorio italiano. Ma anche quelle liberali, se si pensa ad esempio alle banche popolari.
Basate su un principio mutualistico, teso a mettere in comune risorse per soddisfare, senza lucro, il bisogno di beni e servizi dei soci, e per questo favorite anche fiscalmente rispetto al resto delle imprese, sono una realtà che pareva non avere problemi di sopravvivenza, anche se alcune hanno patito grandi traversie. Ma come spiegare il fenomeno dei quattro colossi cooperativi di Reggio Emilia?
Va detto innanzitutto che il bilancio complessivo del movimento cooperativo ha un saldo positivo. Coop sociali, servizi, agroalimentare e ristorazione hanno il segno più. Tra il 2008 e il 2015, mentre a livello generale si è perso l’1,7 per cento dei posti di lavoro, l’occupazione nelle cooperative è aumentato del 6,1 per cento. Le quattro cooperative reggiane appartengono a un settore dell’economia, quello dell’edilizia, che ha avuto un autentico tracollo storico con la crisi del 2007 e non poteva quindi non essere destinato a colpire anche realtà di carattere mutualistico.
Riconosciuto questo fatto congiunturale, rimangono comunque alcune domande. Che ne è stato del costante controllo sui costi e sulla gestione – prerogativa di una coop – da parte dei soci? Come ha inciso la gestione di un management di tipo particolare, con un continuo scambio tra lavoro politico, imprenditoriale e amministrativo?
In definitiva, il movimento cooperativo italiano ha sofferto, soprattutto in questi anni, nel settore delle imprese di costruzione. Ma bisognerà comunque chiedersi anche se l’avere esteso il concetto di “mutualistico” ampliando l’arco delle attività e degli investimenti in cui intervenire, non abbia contribuito al crollo di queste imprese. In sostanza, dovendo fare i conti con il mondo intorno, le coop hanno cercato di muoversi sul mercato con i suoi stessi criteri subendo in pieno la crisi. C’è già chi grida al crollo dello spirito ideale (cosa che è sempre possibile in qualunque attività umana), ma come verificare il tradimento dei principi mutualistico e sociale per l’ambizione di perseguire un profitto, in un momento di grave crisi generale?
Sarà decisivo verificare fino a dove abbiano invece inciso il crollo del settore dell’edilizia, la progressiva restrizione delle possibilità di accedere al credito bancario, il ritardo nella riscossione dei crediti che le coop hanno accumulato nel confronti della Pubblica amministrazione.
In definitiva, il modello di impresa cooperativa, alla luce di queste gravi crisi che lo riguardano, ha ancora il suo valore? Precisato il difetto di concentrazione, di “immagine” holding, di affiancamento alla politica, di investimenti sbagliati, la cooperativa non può essere relegata fuori dalla storia. Soprattutto in tempi di turbo-capitalismo dove le risorse economiche vengono drenate dall’economia reale a quella finanziaria, la cooperativa va difesa perché può avere ancora una funzione sociale ed economica di grande valore, a partire dal fatto che invece di massimizzare il profitto cerca di massimizzare l’occupazione.
Detto questo non bisogna dimenticare che senza uno spirito ideale che fa ritenere più interessante il creare lavoro e sviluppo per tutti, rispetto al proprio vantaggio personale (o della propria consorteria), non ci sarà forma di impresa che saprà adeguatamente rispondere ai bisogni economici e sociali e fronteggiare la crisi.