Pronunciamo spesso parole il cui significato ci appare così ovvio che non ci soffermiamo quasi mai a domandarci se davvero sappiamo cosa vogliano dire; sembra quasi che quanto più importante è il contenuto della parola, tanto maggiore è l’ovvietà dell’uso e, corrispondentemente, l’assenza di adeguata comprensione; non solo perché quella parola è obiettivamente difficile da spiegare, ma anche perché prevale la pigrizia dell’ovvio.
Il cristiano abituato alla recita delle Lodi mattutine prega quotidianamente con le parole del Cantico di Zaccaria (o Benedictus, dall’incipit della versione latina); questo brano, tratto dal primo capitolo del vangelo di Luca, contiene tre volte la parola salvezza (è la più usata in tutto il cantico). Raramente, però, ci si interroga sul suo significato o, meglio, raramente riusciamo ad associarle una immagine vitale, esistenziale, operativa, concreta insomma.
Quant’ero ragazzo le cose erano chiare: salvezza aveva un significato univoco e cioè non andare all’inferno, salvarsi — appunto — l’anima. Non si trattava di foschi turbamenti e malsane paure; era piuttosto (ed è ancora, intendiamoci, ma in un contesto culturale molto cambiato, in cui l’unica cosa che si salva è il file su cui si sta lavorando) un dato acquisito: dopo la morte o ci si salva (andando in paradiso, quasi certamente attraverso il passaggio del purgatorio) o ci si danna. È la chiara alternativa della scena del lazzaretto nei Promessi sposi, quando Renzo, con fra Cristoforo, si trova davanti “su una materassa, involtato in un lenzuolo” don Rodrigo, appestato e morente. A Renzo, il frate dice: “Forse la salvezza di quest’uomo e la tua dipende ora da te, da un tuo sentimento di perdono, di compassione… d’amore!”. La salvezza si gioca nell’istante della morte (che, del resto, può essere qualsiasi istante).
Ma la salvezza — mi fu detto crescendo — non riguarda solo l’aldilà. In tempi in cui la vita è tendenzialmente limitata al tempo che l’essere umano trascorre tra la nascita e la morte, quel modo di parlare di salvezza me la rese interessante perché significativa per il presente: è adesso che io ho bisogno di salvezza. Ho bisogno di salvare anzitutto me stesso e quindi di sapere se davvero sono capitato al mondo per caso e lo lascerò altrettanto casualmente, avendo nel frattempo tentato di soddisfare i bisogni propri della mia razza, che sono quelli animali, con qualche aggiunta del tipo ragione o sentimenti.
Liberato dall’insignificanza del mio esistere, scopro che c’è ancora da salvare tutto quello che sta dentro l’esistenza. Il tempo, ad esempio, che non è una pozzanghera di vuoto, ma un fiume che — a volte lento a volte impetuoso — va in una direzione precisa: l'”ultima salute” direbbe Dante (nella cui lingua salute è l’esatto equivalente di salvezza, mentre successivamente ha indicato solo il buono stato del nostro corpo). Deve inoltre essere tratto in salvo tutto il bello, il buono, il vero che nello scorrere di quel fiume vedo, scopro o faccio; neanche un briciolo di amore autentico, neanche una nota d’una musica affascinante, neanche una lacrima di commozione per un gesto buono ricevuto si possono perdere. E devono pure essere salvati — cioè riempiti di pur misterioso significato — il dolore e il male. Tutto, insomma, deve trovare senso e, attraverso la necessaria purificazione, essere trasfigurato. Impresa al di là delle mie forze: è necessaria l’infinita potenza di un Salvatore.