C’è una stagione per tutte le cose, e quella che dai noi sta terminando è la stagione delle “graduations”, delle lauree. Le graduations sono una cosa seria, così importante da non poter evitare la spettacolarizzazione che caratterizza una infinità di aspetti importanti della vita americana. Infatti le graduations – viste con occhio non indigeno – appaiono come maestosamente pompose (ed interminabili) celebrazioni a metà strada tra una liturgia pagana ed una cerimoniosa orgia di retorica. Caps and gowns, cappelli e toghe con i colori dell’Alma Mater, musica trionfante, adunate oceaniche in luoghi prestigiosi dove svolgere la cerimonia sono gli elementi formali che costituiscono la cornice dell’evento. I nostri figli li abbiamo visti sfilare in posticini come il Madison Square Garden e il Radio City Music Hall. Di graduations ne avrete certamente viste (o sentito narrare) in qualche film, dal celeberrimo “The Graduate” di Nichols con un giovanissimo Dustin Hoffman e le musiche di Simon e Garfunkel, a “Legally Blonde” con Reese Witherspoon, “Never been kissed” con la Barrymore e chissà quanti altri. Ebbene, è esattamente tutto come nei film, essendo che in America è veramente tutto come nei film.

Ma oltre agli elementi formali cui accennavo, prima che si avvii lo sfinimento della processione di tutti i laureati – uno ad uno, chiamati per nome a stringere la mano del presidente dell’Università per poi brandire il proverbiale pezzo di carta – c’è il “Commencement Speech”, il discorso d’inizio. Il Commencement Speech è l’anima della graduation, il messaggio di apertura della cerimonia e di addio alla vita da ragazzi, è l’introduzione alla nuova realtà che attende questi giovani appena fuori dai confini del campus, è lo sguardo sulla vita offerto da un adulto “che ce l’ha fatta” a coloro che stanno per cominciare la nuova grande e decisiva avventura dell’esistenza. Pensate al celeberrimo commencement speech di Steve Jobs a Stanford nel 2005. Per questo ogni anno le oltre 2.600 università americane si contendono personaggi di spicco di ogni area di interesse, razza, sesso, religione e tendenze politiche. Costoro potranno offrire spunti motivazionali, incoraggiamenti, suggerimenti, riflessioni filosofiche. A volte conquisteranno l’audience, a volte la annoieranno raccogliendo più sbadigli che applausi …ma così è sempre stato, così prevede la liturgia della graduation.

Ma anche qui qualcosa è improvvisamente cambiato. Se nessun problema ha accompagnato Hillary Clinton a Wellesley, Joe Biden a Colby e Bernie Sanders al Brooklyn College (così come tutti quelli che ne condividono grossomodo le idee) le cose stanno andando molto diversamente per i sostenitori dell’amministrazione Trump. Giorno dopo giorno, di College in College, l’ostilità da parte di frange anche numerose di studenti si rende sempre più manifesta, a volte fino alla contestazione violenta, come nel caso di Charles Murray in Vermont, di Betsy DeVos, segretaria dell’Istruzione, fischiata in Florida o Ann Coulter, celebre autrice e commentatrice sociale e politica “disinvitata” dall’Università di Berkley dopo l’insurrezione di un gruppo di studenti. 

Ed anche dove la “freedom of speech”, la libertà di parola difesa dal Primo Emendamento della Costituzione viene in qualche modo tutelata, nulla vieta di girarsi sui tacchi ed andarsene. Come almeno un centinaio di studenti hanno fatto alla prestigiosa Università di Notre Dame, Indiana, non appena Mike Pence, vicepresidente degli Stati Uniti e già governatore di questo Stato, ha preso la parola. Persino tra i “liberals”, i difensori della libertà, c’è chi comincia a preoccuparsi. Chi non è stupido, chi non ha la mente completamente obnubilata dai fumi del pensiero dominante capisce che tanta ostilità è solo sintomo di una profonda debolezza intellettuale, di una inconsistenza della persona che trova la sua apparente forza solo in uno schieramento, nell’ebbrezza di un “essere contro”. 

A chi può giovare questa frattura ideologica che incombe sul paese come la faglia di Sant’Andrea? Da una parte abbiamo una nuova gestione del potere che sembra più interessata alla mistificazione che alla realtà delle cose, che fa leva sul populismo, che è riuscita a generare per difendere interessi di pochissimi. Dall’altra un mondo di “giusti”, di uomini che si pensano senza ombra né peccato. Di fatto siamo di fronte a due schieramenti assolutamente incapaci di qualsiasi forma di dialogo, disinteressati a qualsiasi forma di dialogo. Siamo di fronte ad una unità impossibile.

Quando ero giovane la parola “dialogo” mi dava un certo senso di repulsione. Perché? Perché mi suonava vuota, debole, priva di vita. Eppure non c’è nulla di più bello che scoprire che l’altro è molto di più di quel che mi sembra. Che poi è esattamente quello che vorremmo che gli altri capissero di noi.

Mi vengono in mente le parole di Don Giussani: “Usare il preconcetto come apertura di domanda”, cioè prenderlo come punto di partenza per un cammino al vero e non come la trappola che uccide ragione e libertà. Certo che ci facciamo un’idea di tutto e di tutti, ma il bello della vita è il cammino che comincia da li, non che li finisce!

Allora, con le parole di Beatrice Hall, potrà accadere che “non condivido quello che dici, ma darei la vita perché tu possa dirlo”.