In neppure ventiquattr’ore di tempo dalla chiusura dei seggi la Gran Bretagna ha visto proclamati i nomi di tutti i suoi parlamentari, la presa d’atto del risultato da parte delle forze politiche del paese e la riconferma della premiership della nazione con una nuova maggioranza e un nuovo governo. In un contesto molto simile l’Italia nel 2013 impiegò sessantadue giorni per vedere designato dal presidente della Repubblica un presidente del Consiglio. Da allora è stato un susseguirsi di colpi di scena, culminato con l’impietoso naufragio avvenuto in Parlamento dell’accordo fra i principali partiti politici per il varo di una nuova legge elettorale. 

In questi cinque anni la classe dirigente dello Stivale non è stata seriamente capace di abbattere la zavorra del debito pubblico, di rilanciare politiche a sostegno del lavoro e del reddito che fossero eque ed efficaci, di fornire ai cittadini un sistema scolastico, sociale e fiscale semplice e trasparente. Il risultato è quello di un popolo allo stremo, lontano dalla politica e dai suoi riti, stretto dalla morsa di una crisi economica che sembra finita solo nei numeri, ma non nella “testa” e nel “cuore” delle persone. 

Eppure appare evidente a tutti che l’Italia non è solo questo: esiste un popolo fatto di uomini e donne in carne ed ossa che ogni giorno crea e promuove impresa, fa assistenza, insegna, custodisce gli anziani, manda avanti gli ospedali, esprime acume scientifico nella ricerca e nella sperimentazione d’eccellenza, riflette, scrive e si sostiene a vicenda. Mai come in questo periodo, insomma, la classe politica appare lontana dalla nazione reale, al punto che si potrebbe dire che il vero miracolo di questi nostri anni è che le cose stiano in piedi — che la coesione sociale non venga meno del tutto — nonostante l’inadeguatezza di chi tiene in mano le redini del potere. 

Certamente all’origine di tutto sta la corruzione, quel fenomeno che non è tanto il sistema che la magistratura denuncia da venticinque anni a questa parte, quanto qualcosa che si annida nel cuore di ciascuno e che si esprime nel ritenere che il bene sia una cosa da ottenere e non l’esperienza che ognuno può fare nell’attenderlo. Il capitalismo ci ha insegnato, in modo continuo e penetrante, che il bene è un prodotto, è un qualcosa di determinato e finito, è un potere. Al contrario l’esperienza dell’uomo testimonia che il bene non consiste in ciò che si possiede o in ciò che si raggiunge, bensì nella strada che si fa per arrivarvi. Una cosa è buona se mi mette in cammino, una cosa è un bene per tutti se smuove e cambia l’Io. Altrimenti è solo un qualcosa di definito a disposizione del mio pensiero e del mio schema ideologico. 

Oggi il Capo dello Stato incontrerà ufficialmente Papa Francesco, l’uomo che più di tutti sta insegnando al mondo che la vita non è autentica quando si difende dal male, bensì quando non perde di vista il bene. Un nuovo impegno in politica, un nuovo sussulto di dignità e di partecipazione che porti il paese ad una via d’uscita seria e decorosa dalla situazione squallida in cui si trova, non può che muovere le sue premesse dall’appassionata ricerca di un positivo dentro ogni istanza e ogni situazione, quell’appassionata ricerca che nella figura del Cristo è diventata certezza col Mistero dell’Incarnazione, di un Dio che non ha timore della storia, ma che la incontra fino a farla Sua. 

Noi non siamo venuti al mondo per estirpare la zizzania, bensì per fare in modo che il grano cresca. A ben vedere, oggi, questa coscienza è quello che ci manca.