Nella pagina d’apertura della sezione culturale del Corriere della Sera c’è la recensione di Sergio Romano al recente volume dello storico Marcello Flores La forza del mito. La rivoluzione russa e il miraggio del socialismo. Il quotidiano titola: «Il vangelo secondo Lenin»; non vuol dire: quello che Lenin pensa del vangelo, bensì che il padre dell’URSS – come Matteo, Marco, Luca e Giovanni – avrebbe scritto il suo proprio vangelo. Quel vangelo che per decenni propagandisti, leader politici, oratori e giornalisti hanno proclamato da innumerevoli pulpiti, iniziando idealmente i loro discorsi o scritti con le parole, appunto, «Dal vangelo secondo Lenin». Coerentemente il sottotitolo del Corriere recita: «Intollerante anche verso i socialisti [ma di questo ora non mi occupo], il bolscevismo operò come una religione messianica». In sostanza si insinua che il terrore imposto dal regime comunista in Russia per settant’anni (lasciamo da parte le sue maligne ramificazioni in mezza Europa e in parecchie altre parti del mondo) è dovuto più al suo carattere di «religione» che alle sue premesse ideologiche, cioè il marxismo interpretato e irrigidito da Lenin e poi implacabilmente imposto, con tutta la violenza ritenuta necessaria alla causa del partito, da Lenin stesso e poi da Stalin e dai suoi successori.
Il paragrafo conclusivo della recensione – che riporto per intero scusandomi della lunghezza della citazione e avvisando che i corsivi sono miei – è di una chiarezza che lascia senza parole: «Nella sua versione leninista, quindi, il comunismo non è soltanto una teoria politico-economica nata dalle tesi di Marx, Engels e altri intellettuali fra l’Ottocento e il Novecento. È anche una fede che ha, come ogni religione, un profeta (Lenin), un ristretto gruppo di apostoli (i compagni della prima ora), il costruttore della Chiesa (Stalin) e una legione di monaci combattenti, pronti al martirio. Come in ogni religione anche nel comunismo il fedele deve accettare pazientemente gli insuccessi, i sacrifici, il martirio e gli errori di percorso. Tutti verranno generosamente ripagati dal compimento delle speranze e dall’avvento di una vita nuova in cui il credente sarà finalmente felice. Se questa lettura del bolscevismo è giusta, dovremmo concluderne che il comunismo non fu un’ideologia laica e che non furono laici i suoi maggiori esponenti, in Russia e altrove».
Ma se le cose stanno così, è facile pensare che sia vero anche il tragitto inverso: io che ho fede in uno che è addirittura molto più che un profeta, che mi penso inserito nella storia di una Chiesa che è cominciata dal rapporto di Gesù con gli apostoli ed è proseguita coi martiri; io che riconosco le difficoltà del cammino storico di questa Chiesa; io che spero nella ricompensa eterna, ma anche nel «centuplo quaggiù», io fedele di una «religione messianica» sono fatalmente destinato a generare il mostro del totalitarismo intollerante e violento, a mettere le basi del grande Gulag che ogni religione inevitabilmente produrrebbe. E se non ci riuscirò è perché ci sono i benemeriti «laici» che vigilano in difesa della libertà, perennemente minacciata dall’altro oscuro prodotto di ogni religione: l’Inquisizione. Non per nulla essa è citata all’inizio della recensione come termine di paragone illustrativo della terribile Ceka – «per metà polizia e per metà tribunale rivoluzionario» – creata da Lenin per «eliminare fisicamente tutti coloro che avrebbero cercato di ostacolare il suo disegno». Che, però, era figlio di una ideologia atea e non di una fede religiosa.