Lo chiamano poliamore. Per la prima volta è stato legalizzato in Colombia da un atto notarile che manifesta le intenzioni matrimoniali di tre maschi per formare un’unione che i media colombiani hanno già soprannominato la “trieja”, storpiando la parola coppia. Si può dunque essere sposati in tre, avere gli stessi diritti di una famiglia, condividere lo stesso tetto, disporre degli stessi beni, adottare i figli naturali di uno del trio. Ma c’è di più. Infatti la trieja è solo una delle varianti del poliamore. Si potrebbe anche essere innamorati in quattro o in cinque. Poco importa: l’importante è amarsi e poter accedere a dei diritti.
E qui sta il grande inganno. Nessuno mette in dubbio i sentimenti, nessuno mette in discussione il bisogno di sentirsi riconosciuti. Sono tutte cose umane e si capisce quanto possano essere importanti. Il fatto su cui riflettere, però, è che una famiglia non è fondata né sull’amore né sui diritti. Un adagio latino ricorda che consensus fecit nuptias, è la scelta che fa le nozze. Noi ci sposiamo quando ci scegliamo. L’amore è come il più potente indizio che una persona possa sperimentare per comprendere chi scegliere, ma è semplicemente questo: un segno. Grazie all’amore noi comprendiamo verso chi il Mistero ci chiama ad una scelta. La scelta non è, come nei film americani, scontata e a senso unico: l’amore ci può far scegliere di costruire qualcosa di bello e positivo con un’altra persona, l’amore ci può spingere a scegliere di custodire quel volto tanto desiderato nel riserbo e nel distacco, l’amore — infine — ci può muovere a scegliere di servire l’umanità e il mondo attraverso l’intimità con quella certa persona, consapevoli che nessuno ama senza motivo.
Lo scopo dell’amore è la vocazione, è comprendere il perché ci sia quel sentimento nella nostra vita. E la vocazione più grande è il servizio, la disponibilità a che la propria vita “serva” — diventi utile — per gli altri esseri umani. Amare è quindi solo il primo passo di una scelta più grande: non si ama per essere soddisfatti, ma per essere fecondi, liberi, disponibili alla vita.
Il coronamento dell’amore, quindi, non sono i diritti, non sono le agevolazioni economiche o lo status sociale: il coronamento dell’amore è il sacrificio. Sacrificio di sè stessi, del proprio corpo, della propria storia, del proprio orgoglio, affinché attraverso di me — attraverso di noi — il mondo cresca e la mia umanità fiorisca. Se il seme non muore, dice Gesù, rimane solo. La solitudine non termina con l’innamoramento, ma con il sacrificio, con la povertà di cuore e di spirito a che la vita sia quel che un Altro ha stabilito che debba essere.
Per cui ci si potrà anche innamorare di due, tre, quattro persone diverse, si potranno avere tutti i diritti di questo mondo, ma niente potrà cancellare l’esigenza che quello che provo abbia un senso per me e per le persone a cui voglio bene. E questo senso non sboccia nei poteri che la legge mi dà, ma nel travaglio di dire “Noi” dentro mille drammi e mille contraddizioni.
Amare è una cosa seria perché apre la strada per un cammino, per una rinnovata scoperta di sé, che ci fa scegliere e vivere una vita che — proprio perché piena e feconda — potrà resistere alla notte, a quel misterioso giorno in cui ci alzeremo e ci renderemo conto di non provare più nessuno di quegli antichi sentimenti che ci portarono a sposarci. Essi hanno fatto spazio alla certezza e alla gratitudine di esserci scoperti sulla giusta strada. Per il bene nostro e del mondo intero.