A confessare che miglior forma di testimonianza dell’esempio non c’è, è la gente. S’aggrega, stavolta, anche Cristo: quello che “ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere” (Mt 25,35). Nato a Betlemme, casa-del-pane, prima d’andare a morire per amore si fece Lui stesso pane, partorì la genialata d’essere pane-Maiuscolo per la cerchia degli amici suoi: avevano così fame – d’essere felici, di venir saziati, d’irrobustirsi – che Dio non poté apparire loro se non sotto la forma del pane. Betlemme, la piana della moltiplicazione, l’officina delle parabole, il cenacolo in città: nato in mezzo a dei pescatori, pur avendo come antenati dei pastori, s’avventurò nel mestiere del fornaio perché nessuno morisse più di fame. Di felicità. Dio da adorare, Dio col quale colloquiare a tu per tu, Dio da invocare. Dio da masticare: su questo ciglio nessuno, prima di Lui, aveva ancora avuto il coraggio di sporgersi. D’azzardare la misura più certa di cosa significa amare, farsi amare. Toccare l’Amore.
Mica lo capirono loro, che pure erano uomini tutti-presi dalla materia, dalla letteralità delle parole, uomini pancia a terra. Andarono in tilt: “Come può costui darci la sua carne da mangiare?” Ancor oggi, dopo migliaia di pani-sfornati, non si capisce cosa significhi amare in quella maniera, a dismisura, pagando il pane col baratto della vita. Pane: “Prendete e mangiate; questo è il mio corpo”. Vino: “Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue” (Mt 26,26-27). Prendere è verbo d’invito: dice vieni-qui-vicino, fatti-avanti, dacci-sotto. Rompi il ghiaccio.
E’ quasi bestemmia per un popolo che Dio non lo poteva nemmeno nominare, figurarsi dipingere: toccarlo al punto tale da masticarlo era materia d’eretici, gestualità di pazzi. Non capirono che l’amore funziona così: quando viene meno la stagione dei baci e delle carezze – del ti amo sussurrato all’orecchio, bisbigliato sulla punta del naso, evocato col ghigno sorridente – s’apre la stagione dei morsi: “Ti morderei di baci”. La carne amata viene morsa dalla bocca-amante, segnata coi denti: è l’amore a venire masticato. Mica perversione. E’ materia così ardita da diventare invito-a-cena da parte dell’Altissimo: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna” (Gv 6,51-58). Tutto il Vangelo è così: ha bisogno di contadini, di poeti, di gente che annaffia fiori, che riconosce i venti dalle loro provenienze. Di gente che vive a Pane-e-Vino.
Per accorgersi di come tutto-cambi con quel Pane-inghiottito: d’ora in poi ti chiamerai Marcellino Pane e Vino. Pane di silenzio, pane in ginocchio, il canto del pane: “Il silenzio era rotto solo dal palpito del cuore di Marcellino, che batteva sempre più in fretta” (J. M. Sanchez Silva). Quando l’ascoltai per la prima volta raccontata sulle labbra della mia mamma – vivevo la stagione che precedeva la mia prima comunione –, lei s’affrettò a tirare la conclusione, che non me la perdessi dopo l’ebbrezza di quella storia: “Il giorno che farai la prima comunione ti chiamerò Marco Pane e Vino, come Marcellino. Ti piace?”. Più che piacere, mi parve un’assurdità, quasi un azzardo: Dio masticato da un bambino, l’Immensità nelle mie piccole mani.
In cucina la nonna spesso tirava le orecchie a noi bambini quando ci lanciavamo molliche di pane: “Bambini, quante volte ve lo devo dire ancora che non si gioca con il pane?” Un giorno si mise di traverso pure il nonno che, commentando non ricordo più nemmeno cosa, ebbe a citare uno dei proverbi più saporiti di casa mia: “Chi ha i denti non ha il pane, e chi ha il pane non ha i denti”. Quando – all’indomani del mio sacerdozio – ho iniziato a celebrare l’eucaristia, mi son preso per liturgisti nonno e nonna. Lei, mentre sto per consacrare il pane, mi ripete la formula: “Non si gioca col Pane, Marco”. Lui, uomo di terra, mi rammenta la fortuna che ho tra le mani: “Hai il pane. Ti auguro di avere denti per quel Pane”. La mamma, che con papà ha scelto il mio nome, mi ricorda come mi chiamo: “Marco Pane e Vino”. Faccio il pane-in-ginocchio.