Il Manzoni e la Pentecoste, oggi

Il celebre inno di Alessandro Manzoni "La Pentecoste" di cui quest'anno cade il bicentenario dell'inizio della stesura. Ce lo spiega PIGI COLOGNESI 

Gli storici della letteratura hanno accertato che Alessandro Manzoni cominciò la stesura dell’inno La Pentecoste il 21 giugno 1817 e sebbene l’elaborazione per arrivare alla stampa (26 settembre 1822) sia stata lunga e complessa, possiamo senz’altro celebrare ora il bicentenario di questa poesia nella quale — scrisse Cesare Angelini — il Manzoni “ha calato tutto il mondo morale-religioso del Promessi sposi“. 

Ne ho già accennato nell’editoriale del 6 maggio dello scorso anno, ma ora mi interessa mettere in rilievo un aspetto che allora non avevo toccato. È il tema della funzione storica del cristianesimo in vista della realizzazione degli ideali di giustizia, libertà ed uguaglianza che il giovane Manzoni aveva abbracciato con entusiasmo e che la conversione alla Chiesa cattolica non aveva affatto spento, anzi. 

Sua preoccupazione era mostrare — usando ancora le parole dell’Angelini — “come solo la carità derivata, non dalle contaminazioni del secolo, ma dalla pura fonte del Vangelo e disciplinata nel cattolicesimo, poteva essere il succo e la linfa da far scorrere entro gli strati dell’umano consorzio per redimerli e farne un mondo di uguali”.

La parte centrale dell’inno mostra infatti gli esiti dell’avvenimento di Pentecoste (l’abbiamo celebrata quindici giorni fa), che sono tutti all’insegna della novità: “nuova franchigia” cioè liberazione, “nuove conquiste” non di territori ma di spazi incolti dell’umano, nuova “gloria” ottenuta non nel successo esteriore ma nel ritrovamento di un io più profondo ed autentico, e soprattutto una nuova “pace, che il mondo irride, / ma che rapir non può”. Questa novità è tale che dona speranza anche alla schiava che baciando il proprio figlio invidia la condizione della donna libera; speranza motivata dal fatto che “al regno i miseri / seco il Signor solleva”; i poveri di spirito sono anzi privilegiati.

Ma cos’era la Chiesa — “Madre dei Santi” come la chiama il primo verso dell’inno — all’inizio del suo cammino? Un gruppetto di uomini impauriti in una Gerusalemme ancora in subbuglio per l’esecuzione del rabbi di Nazaret ma già sulla via di dimenticarlo; quel multiforme corpo ecclesiale che doveva diffondersi “dall’uno all’altro mar” era allora qualche decina di persone rannicchiate timorose in qualche “angolo”. Persino aver visto il Risorto e averne osservato l’ascensione al cielo non le aveva liberate dal “terror”, dal sentirsi sicuri solo “nell’obblio” e, quindi, nel nascondersi in “riposte mura”. 

Non so a quale esperienza personale o della Chiesa del suo tempo il Manzoni pensasse componendo questi versi; certo credo che ognuno di noi, cristiani d’oggi, abbia provato la disillusione, la schiacciante sproporzione, il senso di impotenza e persino la paura di fronte a un mondo che non sa, non vuol saperne del cristianesimo e, se viene raggiunto dall’annuncio, deride, offende, sbuffa indifferente. 

Ma allora come ora giunge il “sacro dì” in cui “lo Spirito rinnovator discende”. Non è calcolabile, non è programmabile, non è prevedibile, ma da duemila anni continua ad accadere, mettendo nelle nostre mani tremanti “l’inconsumata fiaccola” ed aprendo sulle nostra labbra balbettanti “il fonte della parola”, capace di rivolgersi a tutti e a tutti dare speranza, come la luce che “piove di cosa in cosa / e i color vari suscita, / dovunque si riposa”.

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