Se si vuole che il nostro Paese si risollevi non serve negare l’entità dei suoi problemi. Serve invece smettere di ignorare ciò che manca davvero. Anzi, il primo modo con cui la politica potrebbe mostrarsi più vicina ai cittadini è quello di raccontare la verità, anche se scomoda.
La prima questione da dire è che la crisi è strutturale. La ricchezza va prodotta prima che redistribuita e il sistema economico italiano si è mostrato capace solo in parte di reagire alla globalizzazione. Nella rapida evoluzione del sistema industriale mondiale, le multinazionali storiche sono divenute multinazionali globali, le filiere locali reti globali, i distretti locali distretti estesi. In questo contesto troppe imprese italiane si sono rivelate lentissime nell’innovarsi e adattarsi ai nuovi scenari. Ne consegue che abbiamo oggi in Europa la più bassa partecipazione al mercato del lavoro, elevati tassi di disoccupazione (dal 6,2 per cento del 2007 all’ 11,9 del 2016) euna disoccupazione giovanile più che raddoppiata.
Un secondo elemento strutturale della crisi è il problema demografico più volte trattato negli ultimi tempi sul Sussidiario. Il forte calo della natalità nell’ultimo quinquennio (anche fra gli immigrati) implicherà che nei prossimi anni ci saranno sempre meno lavoratori in grado di mantenere le persone anziane (oltre che quelle malate) e quindi un crescere dei problemi economico-sociali. In questo contesto quella che dovrebbe costituire l’anima della ripresa, cioè il sistema d’istruzione e formazione è mortificato in troppe zone del Paese e genera 150.000 abbandoni all’anno.
Con tutto ciò, abbiamo dovuto abituarci al fatto che, fin dall’abbattimento della prima Repubblica, i vari e contrapposti leader politici hanno raccontato che il governo precedente aveva più o meno rovinato il Paese, ma che ora non ci sarebbe più stato da temere perché con poco e magico sforzo all’insegna del “faccio tutto io” si sarebbero risolti i problemi. E in questo modo hanno incoraggiato sciatteria e massimalismo contribuendo a fiaccare speranza e desiderio di lottare (denunciata dal Censis in un suo rapporto di qualche anno fa). Sì perché l’origine dei nostri mali non sono l’Europa, le banche, le tasse, ma, prima di ogni cosa, una confusione e una mancanza di energia esistenziali.
Il tema è se il cambiamento viene dal “sistema”, dall’alto o parta dal basso, da quello che passa nella testa della gente. Senza voler togliere nulla all’assetto organizzativo e normativo, bisogna ammettere che tutto parte dall’iniziativa delle persone che partecipano al sistema.
Allora è giusto soffermarsi a chiedersi perché alcune imprese si sono rimesse in gioco e hanno accettato la sfida della qualità e del cambiamento? Perché alcune famiglie fanno figli anche se hanno una condizione più insicura e più povera di altre? Perché ci sono tanti insegnanti che, pur pagati poco, si dedicano ai ragazzi con passione, intelligenza e abnegazione? Perché ci sono funzionari pubblici e politici competenti che continuano a lavorare alacremente per il bene comune?
E ancora, perché tanti giovani laureati italiani (ormai l’8%) non si arrendono alle difficoltà e trovano lavori in prestigiosi atenei esteri, mentre altri accettano per anni lavori precari, ma riuscendo a imparare e migliorare man mano la loro situazione?
A furia di ascoltare analisi di dettagli, proclami di arruffapopoli ascoltati come stregoni, continui lamenti che scaricano sugli altri l’origine dei propri problemi, ci si è dimenticati che l’uomo è condizionato, ma non è schiavo di meccanismi naturali o economici o politici, e può ribaltare sempre il destino con la forza del suo cuore, dei suoi ideali, della sua fede.
La nostra crisi nasce da cuori che hanno ridotto il loro desiderio di vivere e migliorare, e la riscossa può nascere da una educazione a non demordere, a esserci con tutto se stessi. Questo è il concreto a fronte dell’astratto delle teorie, dei proclami e del non volutamente detto.