Il cambiamento di opinione dei socialisti spagnoli sul Ceta, l’accordo di libero scambio tra Europa e Canada, è un caso paradigmatico del “male di fazione”. Il Psoe, come tutto il socialismo europeo, era a favore dell’accordo cui si oppongono solo i verdi, l’estrema destra e l’estrema sinistra del Parlamento europeo. Ma il suo nuovo leader vuole cambiare fazione, vuole avvicinarsi a Podemos, e le ragioni che fino a qualche giorno fa erano valide hanno smesso di esserlo, con un certo sconcerto dei tanti socialisti che continuano a usare la testa.
Il mal di fazione si caratterizza per un’appartenenza poco sana che inverte l’apertura della ragione. In politica si giustifica con ragioni tattiche, prima colpisce i partiti, i loro leader, e poi i loro elettori. La formula si estende anche alla vita sociale in modi diversi. Il mal di fazione impedisce al Pp, che si concepisce come la destra che ha salvato la Spagna dal disastro e che ha reso possibile la ripresa economica, di riconoscere un dato evidente: la mancanza di controllo e l’accumulo di potere sono stati terreno fertile per numerosi casi di corruzione. Alcuni dei suoi elettori, che sono tali perché convinti che il Pp può evitare una frammentazione del Paese e perché credono che sia il male minore per la libertà di educazione, si sentono moralmente obbligati e non considerare le sue debolezze: la sua inclinazione alla tecnocrazia, la sua incapacità di affrontare seriamente tutto quel che ha a che fare con la cultura o l’educazione, o semplicemente la sua difficoltà a dialogare con la società. Come se il voto fosse una sorta di impegno di fedeltà ad alcune sigle che non richiede una valutazione di tutti i fattori in gioco. Per quel che riguarda la questione dell’indipendenza della Catalogna accade qualcosa di analogo: ci sono modi di stare insieme, sotto certe sigle e identità, che alimentano la pigrizia e impediscono di ascoltare chi non la pensa allo stesso modo.
Il mal di fazione ha conseguenze particolari nella vita sociale. Se si appartiene, per esempio, agli intellettuali che hanno in qualche mondo abbandonato il ’68 e hanno fatto un percorso di svolta, si farà sfoggio di un occidentalismo privo di aperture. Non si sarà disposti a riconoscere alcun valore al mondo musulmano, alla sinistra, e al desiderio di cambiamento del movimento in cui si militava.
Gli effetti sono particolarmente negativi quando il mal di fazione riguarda la religione. In ambito cattolico ultimamente si evidenziano due modalità. Una percepisce la propria appartenenza, soprattutto, come una lotta contro i poteri di questo mondo che diffondono l’ideologia di genere, sminuiscono i valori della famiglia e della vita. Per costoro è tempo di un riarmo morale. Come se fosse possibile, con uno sforzo, con una denuncia, forse con un qualche peso politico, recuperare la cristianità caduta o almeno la legge naturale che dovrebbe essere riconosciuta da tutti. Tale posizione spesso lascia poco spazio per chiedersi perché è scomparsa l’evidenza della differenza sessuale, perché molti principi che in precedenza erano in piedi sono caduti. E soprattutto, e questa è la cosa più grave, rende spesso difficile l’incontro con esperienze umane di coloro che hanno una sessualità diversa. Incontro che, come tutti gli incontri, quando è reale e non ideologico, rappresenta una fonte di ricchezza. L’altra modalità è una specie di revival del “pauperismo” degli anni ’70: considera l’attenzione per i poveri, la solidarietà, come un assoluto che non richiede altre considerazioni. Qui la battaglia è contro i poteri dei mercati, della globalizzazione.
Entrambe queste forme di appartenenza sono antiquate. È curioso che le due parti rimangano in piedi quando il pontificato di Francesco e dei suoi predecessori è stato ed è un invito continuo a un tipo di appartenenza per nulla statico o unidimensionale, amante della complessità, sempre disposta a rimparare quello che già sembra conosciuto, ad accogliere positivamente, con nuove categorie, le nuove sfide.
Torniamo alla politica. Gli elettori sono consapevoli del mal di fazione. Secondo un recente studio del sociologo Victor Perez-Diaz, “i cittadini pensano che i politici non si ascoltino tra loro, o lo facciano solo per discutere (89%), mentre ritengono che il dibattito pubblico dovrebbe essere un’occasione perché tutti apportino qualcosa e imparino (83%)”.
Tuttavia essere consapevoli di essere intrappolati in un’appartenenza ideologica non è sufficiente a uscirne. La strada in ambito civile e religioso è difficile, perché implica disfarsi di vecchie abitudini e svincolarsi, in non poche occasioni, dalla comodità del gruppo. Richiede un esercizio critico che abbia aspirazioni di sistematicità, tornando a mettere in discussione tutto quello che si considerava acquisito, scartando ciò che non vale. Comporta di non ammettere come criterio di autorità quello che non provoca un’esperienza di maggior libertà e tornare a recuperare il legame con le cose così come sono. Implica il lasciarsi sorprendere dai raggi della positività che illuminano la strada e il seguirli con la devozione e l’obbedienza di un innamorato. La strada non è facile, ma è sicuramente appassionante.