Si è parlato molto della frenata che ha subìto il populismo in Europa con le elezioni in Francia, Gran Bretagna, Austria e Olanda. Sappiamo che il fenomeno è ancora ben presente nei Paesi occidentali, secondo alcuni come risposta a un legittimo bisogno di protezione, secondo altri come alibi che fomenta le paure. Ma qual è il destino che lo attende? 

Nato con un’accezione positiva, in quanto indicava un movimento politico impegnato a migliorare le condizioni di vita dei contadini nella Russia a cavallo tra Otto e Novecento (e con una versione americana), il populismo è ora per lo più vissuto come tentativo demagogico di ottenere il consenso attraverso il discredito della classe dirigente.

Il bel saggio di Francesco Occhetta su Civiltà Cattolica, facendo una panoramica sulle diverse esperienze populiste nella storia e nel mondo, ne delinea sei caratteristiche comuni: il pluralismo come disvalore, con la “libertà esaltata nei discorsi, ma compressa nei fatti”; la ricerca di un rapporto diretto tra leader carismatico e popolo, con l’abbandono dei corpi intermedi; le categorie di destra e sinistra sparigliate per enfatizzare la contrapposizione tra “alto” e “basso”; una comunicazione tramite social media e blog che “ridicolizza le istituzioni, tocca le emozioni e getta sospetto sui fatti”, attraverso “frasi retoriche e brevi, soluzioni chiare di problemi complessi, attacchi diretti agli avversari”; la partecipazione della gente alla vita politica preferibilmente nella forma del referendum, con scelta secca tra sì e no; visione “messianica e moralistica della politica”, in cui il “popolo puro” è contrapposto alle élite corrotte.

Il quadro che ne esce è quello di un popolo come insieme di “io” isolati che, proprio nei momenti di maggiore difficoltà sociale ed economica – brodo di coltura in cui i populismi si affermano – vedono screditati proprio quei contesti relazionali diretti – associazioni, corpi intermedi, sindacati, partiti…- in cui potrebbero trovare sostegno e rappresentanza. In una parola, vedono negati proprio quei valori e bisogni presenti nell’esperienza popolare che il populismo dice di volere difendere. Non è inutile ricordare come nella storia le derive totalitarie siano partite dalle migliori intenzioni di salvaguardare il benessere del popolo. Ma da dove cominciare per salvaguardarlo davvero? 

Guardando più a fondo la realtà, che non è mai in bianco e nero, accettando i problemi umani per ciò che sono, complessi e mai banalizzabili, rendendosi conto che la paura è cattiva consigliera e non permette di accorgersi delle opportunità. In una parola, tornando a credere che conoscere la realtà possa cambiare le sorti della vita. Approfondire, capire come stanno le cose, andare oltre quello che appare per imparare quali segni, quali appigli la vita offre. 

In fondo è un atto di umiltà quello che serve: sapere di non sapere mai abbastanza. E’ la figura di Ulisse il vero antidoto contro ogni forma di disgregazione del popolo, antidoto contenuto nel Dna della civiltà occidentale.

L’uomo-simbolo immortalato da Omero è spinto dal desiderio di conoscere, dalla curiosità per ciò che non sa ancora. E’ un uomo che ama (la sua famiglia, la sua patria, il suo vecchio padre, perfino il suo cane Argo), ma niente riesce a trattenerlo dal desiderio di scoprire, anche ciò che appare minaccioso. In quello splendido e assolato Mediterraneo l’uomo occidentale fa con Ulisse il battesimo della sua anima sapiente. E da lì inizia un percorso di conoscenza, la creazione di strumenti per comunicarla, la nascita di scuole, università, scienza, nuovi modi di produrre, mangiare, curarsi. 

Di recente è stata ricordata la figura di don Lorenzo Milani. Cos’altro aveva fatto il prete di Barbiana se non offrire a poveri contadini e pastori riflessione, capacità critica, approfondimento? Proprio quello che più serve per progredire nel difficile cammino della vita.

Non è un caso che in Europa il gradimento per i partiti populisti cala quanto più è diffusa l’istruzione terziaria e l’appartenenza alle associazioni della società civile.

Certo, le nuove generazioni, costrette ad adattarsi a un mondo che cambia velocemente, nate e cresciute nel “liquido amniotico” della rete e delle nuove tecnologie, da una parte hanno ampio e libero accesso a una grande quantità di contenuti, dall’altra sono sommerse di informazioni flash, con poco spazio per maturare criteri con cui ordinarle. Lo sanno bene gli educatori di ogni ordine e grado, e la scuola che si sta adattando, sempre più preoccupata di riuscire ad ingranare la marcia e far aderire al terreno, senza slittare sulla realtà, personale e collettiva, sul mondo, sulla vita da affrontare.

Pur in epoca di post-verità, basta guardarsi introno per scoprire quanto ci sia bisogno di sapere, di carpire ciò che c’è oltre quello che si vede si sente si tocca, perché i ragazzi, soprattutto quelli con meno possibilità, capiscano che non è mai solo un problema di mera sopravvivenza, ma di crescita personale e collettiva.