Nel giro di pochissimi giorni la primavera ha bruciato le tappe del suo sviluppo ed è giunta a rigogliosa maturità. Lo si è visto dallo scoppio improvviso del regno vegetale che ha completamente cambiato la faccia persino di una città come Milano, che solitamente si qualifica come grigia ed invece in questi giorni ha offerto una mirabile gamma di colori. Soprattutto di verdi. È incredibile quante sfumature ce ne siano!
Purtroppo non conosco i nomi degli alberi e quindi non saprei fare qui con precisione una galleria dei verdi che ho ammirato in questi giorni; dico solo che ce ne sono di scurissimi e lucidi (sono ad esempio le magnolie, questo lo so), di tenerissimi come l’erba appena nata però pendente dagli alberi; ci sono i pini (credo) che hanno i rami coperti dagli aghi dello scorso anno, di un verde ormai ben consolidato, in cima i quali però spuntano birichine punte molto più chiare; ci sono i viali dove le chiome formano un unico fiume di verde che ondeggia al passaggio del vento, sopra, e dei grossi camion, sotto; ci sono anche i verdi un po’ stitici nelle crepe nei marciapiedi o ai bordi delle strade e c’è quello delle siepi che va tenuto a bada perché altrimenti fuoriesce dal recinto e dà fastidio ai passanti, o magari no perché li sorprende: ieri era una semplice cascata di fogliame e oggi essa è punteggiata di fiori arancioni a forma di trombetta.
La meraviglia suprema è proprio quando il verde si abbina ai colori dei fiori: quello argenteo degli oleandri ricoperto di rosso o violetto, quello del gelsomino punteggiato di profumate macchiette bianche, quello delle aiuole di rose (quante ce n’è: nei giardini dei palazzi, a fianco dei marciapiedi, persino in mezzo alle rotonde!) dai colori indescrivibili per le infinite sfumature, quello del prato in mezzo al vialone che conduce fuori città coperto dai cespugli gialli delle forsizie. I gerani salutano dai balconi e nel campo a fianco di un supermercato ho visto persino una spianata di rossissimi papaveri.
“Che è ciò?” si chiederebbe sant’Agostino, riecheggiando la domanda degli affamati ebrei nel deserto di fronte a la manna. Ed ecco come il santo vescovo racconta il suo percorso verso la risposta nel libro decimo delle Confessioni: “Interrogai sul mio Dio la mole dell’universo, e mi rispose: “Non sono io, ma è lui che mi fece”. Interrogai la terra, e mi rispose: “Non sono io”; la medesima confessione fecero tutte le cose che si trovavano in essa [compresi – aggiungo io – le piante d’ogni verde e i fiori d’ogni colore]. Interrogai il mare, i suoi abissi e i rettili con anime vive; e mi risposero: “Non siamo noi il tuo Dio; cerca sopra di noi”. Interrogai i soffi dell’aria, e tutto il mondo aereo con i suoi abitanti mi rispose: “Erra Anassimene [uno dei primi filosofi greci che riteneva l’aria il principio di tutte le cose], io non sono Dio”. Interrogai il cielo, il sole, la luna, le stelle: “Neppure noi siamo il Dio che cerchi”, rispondono. E dissi a tutti gli esseri che circondano le porte del mio corpo [i cinque sensi]: “Parlatemi del mio Dio; se non lo siete voi, ditemi qualcosa di lui”; ed essi esclamarono a gran voce: “È lui che ci fece”. Le mie domande erano la mia contemplazione; le loro risposte, la loro bellezza”.