Proviamo un attimo a immaginare cosa succederebbe se per valutare l’andamento di un Paese, anziché utilizzare il Prodotto interno lordo e altre misure connesse, si usassero parametri quali la qualità della vita, il benessere percepito, la sostenibilità, l’ambiente. Probabilmente l’Italia smetterebbe di essere il “sorvegliato” d’Europa e anche l’impressione della nostra inadeguatezza si affievolirebbe.
Non si tratta di ignorare il fatto che la nostra economia, la produttività delle nostre aziende, il mercato interno e tutto il sistema-Paese siano ancora troppo in difficoltà, ma di chiedersi cosa conti davvero, per definire lo sviluppo di un Paese, oltre al valore monetario dei beni e dei servizi prodotti che il Pil esprime. Non tutto si compra con i soldi e mentre la speranza di vita è da noi più alta che negli Usa, l’incremento a due cifre del Pil cinese viene pagato con un’inaccettabile disuguaglianza sociale e una bassa qualità della vita, ad esempio causata dall’inquinamento. Benché si viva anche lì una volta sola, si vive davvero male.
Senza contare il paradosso per cui il valore prodotto può dipendere anche da eventi nefasti, come un disastro naturale, dal momento che essi generano domanda di beni e servizi per ovviare ai problemi che creano. Oppure il fatto che ci siano tante attività essenziali, come il lavoro domestico o l’assistenza a familiari bisognosi, che non essendo scambiati sul mercato non rientrano nel computo del Pil.
Da tempo si sta affrontando il tema di misure dello sviluppo che, oltre al Pil, prendano in considerazione anche elementi quali il livello di istruzione, la salute, la speranza di vita, l’educazione, la qualità delle abitazioni. La più nota è l’Isu, Indice di sviluppo umano (Hdi in inglese) adottato dalle Nazioni unite. In questo contesto si situa anche il lavoro dell’Istituto italiano di statistica con l’implementazione del Bes, un metodo di misura dello sviluppo inteso come “benessere equo e sostenibile”.
Ma cosa s’intende come qualità della vita? “Quando un ambiente qualsiasi o città ha una buona qualità di vita, significa che la maggioranza della sua popolazione può fruire di una serie di vantaggi politici, economici e sociali che le permettono di sviluppare con discreta facilità le proprie potenzialità umane e condurre una vita relativamente serena e soddisfatta”.
Cosa accadrebbe se, anziché sul pareggio di bilancio, fossimo valutati sulla qualità della vita? Probabilmente non si considererebbe più l’impegno per istruire e formare come una spesa, ma come un reale investimento. E così sarebbe per la ricerca, per i livelli superiori di istruzione universitaria, per la formazione on the job.
Per quanto riguarda i servizi sanitari e di assistenza, si prenderebbero sul serio i cambiamenti necessari per rendere il sistema di welfare più efficace, efficiente e sostenibile, ad esempio ampliando la sanità alla lunga degenza – visto l’allungamento dell’aspettativa di vita -, o spingendo le aziende a offrire servizi di welfare, ad esempio nidi e asili. In una parola, cercando un nuovo equilibrio tra pubblico, privato e privato sociale. D’altra parte questo è il modo con cui si superò la crisi del Ventinove e del secondo dopoguerra. E se anche l’attuale difficile momento presenta aspetti inediti, non si capisce perché non si dovrebbe tentare questa via di buon senso.
E ancora, la responsabilità sociale delle imprese assumerebbe un nuovo significato, non sarebbe più un’operazione poco più che di marketing perché verrebbe tenuta in considerazione non solo la soddisfazione degli azionisti, ma anche quella dei lavoratori e il rispetto per l’ambiente. Non ultimo, si ammetterebbe che le reti sociali sono portatrici di fermento, sviluppo dell’iniziativa personale e di capacità di risposta a tanti bisogni e si smetterebbe forse di diffidarne.
Una domanda sottende tutte queste considerazioni: se le persone stanno bene, hanno lavoro, studiano, quale importanza dovrebbe avere un pareggio di bilancio? Mentre aspiriamo a schemi astratti, non stiamo perdendo di vista che lo sviluppo ha bisogno di seguire un altro percorso e partire dal basso? E tra l’altro, nella storia anche recente, non si è mai smesso di costruirlo.
Il premio Nobel Angus Deaton, che ha dedicato i suoi studi a povertà, assistenza, diseguaglianze sociali e geopolitiche, e alle conseguenze che tutto questo ha sullo sviluppo dei Paesi, ha sostenuto che il livello di inclusione sociale, la tutela della salute, la diffusione del benessere non possono non rientrare nella valutazione dello stato di salute di un Paese. La prossima settimana Deaton sarà a Modena invitato a parlare di questi temi. Speriamo sia l’occasione perché se ne ritorni a discutere.