Il mio amico pittore William Congdon paragonava la creazione di un quadro ad un parto. Diceva che una cosa che aveva visto e in qualche modo l’aveva colpito si era depositata in lui e lentamente, come un feto, era cresciuta fino a diventare un bambino che esigeva di venire alla luce, di nascere come immagine. Se è lecito comparare queste cose grandi con le piccole, la mia settimanale operazione di scrittura dell’editoriale del lunedì segue uno sviluppo simile: lo spunto è una lettura, una scena vista, la parola di qualcuno, l’idea che improvvisamente viene in mente; poi si tratta solo di partorire sulla tastiera del computer le tremila battute dell’articolo, che del succo di quelle letture, parole, scene, idee è la forma concreta trasmissibile ad altri.
Ma oggi non ho nessuna idea. Ho cercato invano nelle rassegne stampa qualcosa da commentare: di sputi ce n’è a iosa, ma nessuno mi convince fino in fondo e non intendo cadere nella trappola della tuttologia o nell’insopportabile banalità dell’ovvio. È da un po’ di giorni che sui mezzi pubblici o passeggiando per strada sto particolarmente attento per vedere se qualche episodio mi suggerisce un commento sensato: niente. Spero dalle conversazioni con gli amici, quelle formali delle riunioni e quelle così come vengono delle cene estive: niente, nessun segno di gravidanza. Senso di vuoto e di impotenza. Penso che non muore mica nessuno se per una volta salto di pubblicare l’editoriale, ma forse è solo per nascondere un problema che è molto più grave dell’incapacità di scrivere un articolo: il sospetto dell’inutilità di quel che si sta facendo.
Giovedì 6 luglio messa del mattino. Prima di iniziare, una signora sale all’ambone a leggere poche righe di biografia del santo del giorno. “Maria Goretti, nata a Corinaldo, in provincia di Ancona…”. Chiarezza improvvisa. Non perché ho trovato lo spunto per l’editoriale, ma perché vedo dove sta l’autentica fecondità edificatrice. È forse uno dei paradossi più pungenti che il cristianesimo può offrire oggi: proporre come modello di umanità compiuta una ragazzina di dodici anni, vissuta in condizioni di totale miseria, in una zona anche climaticamente malsana; una bambina che deve lasciare la scuola per aiutare la madre in casa ma non rinuncia alle lezioni di catechismo per poter fare la prima comunione; una giovinetta appena sbocciata alla pubertà che si trova insidiata da un diciottenne che abita nella stessa cascina e che, vistosi respinto per l’ennesima volta, colpisce per quattordici volte il desiderato corpo con un punteruolo. La ragazza viene portata all’ospedale; muore il giorno successivo, il 6 luglio 1902, dopo aver perdonato l’assassino e assicurato le sue preghiere per lui.
Maria Goretti è stata canonizzata nel 1950 di fronte ad una folla immensa e additata da Pio XII come supremo modello di castità eroica. Fosse solo per questo, oggi sarebbe forse ridicolo riproporne l’esempio. Il paradosso della sua santità è ben più profondo e — credo lo si debba ammettere lealmente — più inquietante. Usiamo una terminologia oggi corrente: quando una vita è “degna di essere vissuta”? Non parlo delle misurazioni che si possono fare o dei parametri che si possono individuare a livello medico o sociale: parlo della mia vita, della tua che mi leggi. Forse attraversare la secca gola dell’impotenza, percorrere un tratto di deserto arido, è necessario per vedere meglio la figliolanza — misera agli occhi di tutti e spesso anche ai nostri —, dalla quale proviene l’autentica e quindi feconda dignità.