Le conclusioni del G20 di Amburgo contengono un contributo spagnolo affinché siano riconosciute e sostenute le vittime del terrorismo. La Spagna, dopo aver sofferto per anni il terrorismo dell’Eta, ha molto da dire sull’esperienza delle vittime, ora che il flagello dell’omicidio politico e ideologico si diffonde in tutto il mondo. Il contributo arriva quando si celebrano i vent’anni dell’assassinio dell’Eta che ha cambiato radicalmente le cose: l’omicidio di Miguel Ángel Blanco. Fino agli inizi degli anni Novanta, infatti, c’era ancora un’ambiguità sul gruppo terrorista: si condannavano gli attentati, ma c’era il dubbio su una possibile legittimità non tanto dei mezzi, quanto dei fini. A ciò contribuiva il fatto che si fosse iniziata a usare la violenza sotto la dittatura di Franco, oltre alla cantilena per cui nei Paesi Baschi c’era stato un conflitto politico. L’assassinio di Blanco nel ’97 ha aperto gli occhi a tutti, con una dolorosa chiarezza morale e permettendo di sbarazzarsi di alcuni complessi propri di una democrazia troppo giovane. Da quel momento è apparso chiaro che gli assassini non potevano continuare a fare politica.

Le vittime, che per molti anni hanno subito non solo la violenza, ma un trasferimento perverso di colpa dei carnefici, hanno cominciato a essere riconosciute politicamente e socialmente. È stato quindi coniato il motto “Memoria, dignità e giustizia”, una formula che voleva incidere nel marmo il ringraziamento della società spagnola per i più deboli, per coloro che hanno sofferto e che sono stati sempre fedeli allo stato di diritto. Ora che la violenza è alle spalle ed è necessario raccontare ciò che è accaduto, la memoria degli uccisi, torturati, umiliati, rapiti, mutilati è essenziale. 

Finora, l’ostinazione di una banda terroristica che non vuole sciogliersi e la pretesa dei suoi successori politici di imporre la menzogna su quanto accaduto hanno reso difficile aprire la possibilità che in casi simili si possano riparare molte vite e riconciliare alcune società. Stiamo parlando della possibilità che le vittime che lo desiderano facciano un passo oltre la loro grande sofferenza. Gesti come quello fatto dal sindaco di Rentería, di Bildu (il partito successore dell’Eta), che ha chiesto perdono a due vittime, rendono le cose più facili.

“Perdono, ma non dimentico”. È una delle frasi diventate famose tra alcune delle vittime dell’Eta e che la società spagnola, pure lei vittima in qualche modo, ha preso a un certo punto come riferimento. È chiaro che dietro una frase così c’è il diritto assolutamente legittimo di non rinunciare alla dovuta giustizia. Ma ci sono giustizie che possono essere più “riparative” rispetto all’applicazione ineludibile della legge. Perché una volta adempiuta la legge e fornito il sostegno sociale e politico, le vittime continuano ad affrontare il loro dolore, la loro impotenza e il segno indelebile impresso dal male. 

Questo è un tema molto delicato e se ne può parlare solamente perché ci sono vittime che hanno raccontato la loro esperienza. L’esperienza di una vita che si apre a qualcosa di più dell’impronta del danno. Agnese Moro, figlia del politico italiano sequestrato e ucciso dalla Brigate Rosse, ha detto alcuni mesi fa di essersi improvvisamente resa conto di non avere l’esclusività della sofferenza. Ha fatto questa affermazione dopo aver partecipato a un programma estremamente rigoroso di giustizia riparatoria per far sì che le vittime e gli autori degli atti terroristici degli anni di piombo si incontrassero. “Il libro dell’incontro” racconta questa esperienza, che non è stata né facile, né rapida.

In Italia i lavori per cercare di favorire il perdono hanno preso spunto dalle esigenze di Olivier Abel, un discepolo di Ricoeur: il perdono è una liberazione della memoria che si ottiene come un dono per chi ha riconosciuto il danno causato e ha fatto tutto il possibile per ripararlo. Con questi presupposti si può rifiutare “a priori” di fare un passo avanti?

In Spagna ci sono state alcune esperienze di mediazione che hanno avuto inizio nel 2011 tra pochi membri dell’Eta che si trovavano in carcere e alcune vittime. Erano prigionieri che avevano chiesto benefici in cambio della collaborazione con la giustizia e il distaccamento dall’organizzazione. Il risultato è raccolto ne “Gli occhi degli altri, incontri riparativi tra vittime ed ex membri dell’Eta”. Probabilmente è stato molto difficile finora mettere in moto altri programmi simili, perché l’organizzazione ha esercitato un ferreo controllo ideologico nelle carceri. Ma ora cominciano tempi nuovi.

Tutti, a modo nostro – e in questo non ci si potrà mai sostituire, né imporre alcunché, a una vittima – comprendiamo la posta in gioco. Perché tutti sappiamo che ci sono certe forme di memoria che sono come prigioni: ti incatenano al male e all’orrore subito. Ne usciamo solamente se, improvvisamente, irrompe il presente e appare qualcosa di più positivo, più luminoso, più grande, più assoluto rispetto al pesante fardello che si trascina.