“We agree to disagree”, siamo d’accordo sul fatto che non siamo d’accordo. I diplomatici usano questa formula vagamente consolatoria quando devono chiudere un vertice come il G20 di Amburgo. Non è la formula preferita: spesso è meglio che il disaccordo maturi senza opacità da un confronto “franco ma utile”. Il summit Reagan-Gorbaciov del 1986 in Islanda si concluse senza intesa sul disarmo nucleare bilaterale: sembrò una rottura pericolosa, ma servì a chiarire a tutti che l’Urss voleva negoziare una exit finale dalla guerra fredda e che il “modello americano”‘ stava per imporsi su scala globale sul terreno del capitalismo finanziario e della tecnologia di massa.

Nell’ultimo fine settimana in Germania non c’è stato nulla di tutto questo. Non c’è stato accordo, ma in fondo neppure disaccordo. L’agenda era formalmente preparata ma era quella di sempre: gli accordi di Parigi sul clima (un protocollo multilaterale) e la “lotta al protezionismo” (questo da sempre più un mantra che un vero canovaccio strategico). Soprattutto (lo ha sottolineato il Financial Times), era difficile capire chi fosse il leader: se la padrona di casa Angela Merkel, candidata a “cancelliera d’Europa”; se il presidente americano, tradizionalmente “capotavola”; se il presidente cinese Xi Jinping, ormai la vera “controparte” di Donald Trump sul pianeta. Sicuramente l’affollamento di un G20 non ha aiutato: a Vladimir Putin — in fondo scolorito erede della superpotenza sovietica — interessava occupare spazi con i bilaterali (con Trump sulla Siria o con Merkel-Macron sull’Ucraina). Gli altri difficilmente potevano aspirare a un ruolo diverso da quello di comprimario.

Nel merito: diciannove Paesi del G20 — tutti firmatari del Cop21 sul clima —hanno “preso atto che la decisione degli Usa di ritirarsi dall’accordo è irreversibile”. Washington resta tuttavia “impegnata a lavorare con gli altri Paesi per accedere e utilizzare i combustibili fossili in modo più pulito ed efficiente”. In parallelo la dichiarazione del G20 promette “la continuazione della lotta al protezionismo incluse tutte le pratiche commerciali scorrette e riconosce il ruolo di strumenti di difesa commerciale legittimi in tal senso”. 

In concreto: gli Usa saranno pure “isolati” nella polemica trumpiana su ambiente ed energia e nella tentazione di abbandonare il multilateralismo commerciale. Però di fronte si ritrovano un “Resto del mondo” indebolito soprattutto dalle divisioni: non solo complicato nelle alleanze, ma fratturato in profondità nei modelli (esemplare lo scontro permanente in tutte le sedi internazionali sul riconoscimento di status di “economia di mercato” alla Cina).

Se è chiaro a tutti che Trump per molti versi non è l’America (meno che mai la figlia nel ruolo di supplente), è altrettanto chiaro che la Cina non è la “nuova America”. La “vecchia America” resta un impasto di libertà e innovazione, di democrazia e competitività: anche quando l’industria arrugginita vince un’elezione contro la Silicon Valley, la “vecchia Cina” è diventato il primo investitore globale e ha trasformato la sua aggressività economica in strategia geopolitica: ma non è certamente un Sistema-Paese più “pulito” degli Usa nello sfruttamento delle risorse naturali (ed umane) e negli scambi internazionali. In mezzo c’è tutto: l’instabilità del Medio Oriente col petrolio ai minimi e le sanzioni Ue alla Russia; la pressioni migratorie sull’Europa e le intemperanze per procura della Corea del Nord. C’è, non da ultimo, un sistema finanziario internazionale che da dieci anni cerca nuovi equilibri e non li ha ancora trovati.

Fra un G7 con la Russia in castigo e un G20 con Erdogan a bordo, fra una sessione Onu e un vertice dell’Fmi, è stata smarrita l’agenda: un set di temi forti condivisi su cui riprendere a gestire disaccordi e accordi, su cui decidere quali priorità e quali leadership possono dare una bussola al globo ormai ben dentro il XXI secolo. Due soli “paper”, per la verità, si sono cimentati a riscrivere in profondità l’agenda, a porre temi fuori dagli schemi ideologici e dalle tattiche diplomatiche: si chiamano Evangelii Gaudium e Laudato si’, li ha scritti Papa Francesco e sono disponibili in tutte le lingue.