Sono stato coinvolto da alcuni giovani neo-laureati nella preparazione di una mostra per il Meeting di Rimini 2017 dal titolo “Ognuno al suo lavoro. Domande al mondo che cambia”.
Il progetto propone alcuni dati di contesto inediti sulle nuove figure professionali richieste dal mercato in diversi settori, e sul tipo di formazione necessaria per ricoprire tali mansioni. Inoltre, attraverso interviste fatte a lavoratori di vario tipo, giovani e anziani, top manager e profili più operativi, lavoratori a tempo indeterminato e temporaneo, la mostra si focalizza sull’aspetto soggettivo del lavoro, sull’esperienza personale che ne fanno i protagonisti. Le domande riguardano i quesiti più comuni che ognuno di noi si fa quotidianamente: cosa implica per la propria vita la scelta professionale fatta; quali sono i fallimenti e i successi attraversati; i principali cambiamenti di rotta intrapresi; qual è il rapporto tra vita professionale e vita privata; in cosa consistono gli stimoli alla propria crescita personale.
Particolarmente interessanti sono le risposte dei cosiddetti Millennials, quella generazione nata tra gli anni Ottanta del Novecento e gli inizi degli anni Duemila. Ragazzi per cui si sono già scritti fiumi di parole e fatte numerose indagini. Il primo dato che rilevo è che i ragazzi incontrati appaiono fino a un certo punto aderenti a ciò che raccontano gli studi. Sono stati chiamati “generazione perduta”, ma benché siano nativi digitali, nati e cresciuti nel “liquido amniotico” della tecnologia e della rete, dalle risposte raccolte non sembrano persi in quel mondo, e nemmeno determinati dall’incertezza diffusa di questa epoca.
La prima sorpresa che ho avuto è stata lo spirito positivo che si riscontra in alcuni. Direi di più: il lavoro, anche duro, anche precario, spesso e volentieri viene vissuto come un’avventura. “E’ sempre più quello che sento che mi manca rispetto a quello che ho. E questo mi è di grande stimolo”, mi ha detto candidamente Michelangelo. “Affrontare una cosa nuova o qualcosa che non so fare significa portare a casa un pezzetto in più, e sapere che quello che non so, se prima era fatto da un milione di cose, ora è un milione meno uno”. Insomma, la vita come “progress” e le opportunità come non dovute ma da conquistare.
Così, mentre noi adulti ci preoccupiamo quando veniamo a sapere che oltre la metà delle professioni che saranno svolte tra cinquant’anni devono ancora essere inventate, questi ragazzi sono “settati” sulla vita come “necessaria approssimazione”. Come un Gps – o meglio, come persone più libere di quanto tendiamo a pensare – di fronte agli ostacoli, “ricalcolano il percorso” e non rimangono nel loop della voce che intima di “tornare indietro”. Non hanno bisogno di accettare o di diventare consapevoli che tutto cambia in fretta e in continuazione: per loro questa è già la realtà semplicemente così com’è.
Ma il mondo così com’è – si può obiettare – potrebbe travolgerli nel loro tentativo di rimanere a galla. I ragazzi vanno sostenuti, accompagnati. Hanno più che mai bisogno di maestri. E proprio su questo punto, ho trovato significativo quanto ha detto Bianca: “Mi sono accorta che per me è decisivo avere qualcuno non che mi dica ‘sei brava’, ma ‘stai facendo bene, hai la grinta giusta’. Qualcuno per cui non è un problema la mia inesperienza, ma è decisiva la mia passione, la voglia, la mia predisposizione a fare anche sacrifici pur di imparare”. E Stefano: “Davanti alla sfida tutti conosciamo sia il senso di difesa che quello lanciarsi correndo anche dei rischi. Per me è stato un maestro chi mi ha insegnato a rischiare”.
I giovani non hanno bisogno di esperti che si riempiono la bocca di analisi macroeconomiche, fanno la diagnosi ma non offrono nulla di sé. Il maestro è per loro qualcuno che li accompagna e insegna loro a nuotare, a volte sostenendoli, a volte buttandoli in acqua. Un monito importante, a questo proposito, arriva da Nicole: “per la mia generazione è sempre meno fattibile accettare acriticamente quello che ti viene imposto dall’alto, perché a un certo punto ti demotiva”.
In un paese in crisi come il nostro, il fatto che i giovani vogliano tentare la loro strada e non ripetere semplicemente quello che propongono loro gli adulti, non è solo comprensibile, ma dà anche speranza. D’altra parte, come le generazioni che li hanno preceduti, sono chiamati a creare soluzioni nuove a problemi complessi e inediti, se vorranno vivere in modo dignitoso.
Anche Gordon Gekko-Michael Douglas in “Wall Street”, uno dei film cult degli anni Ottanta, sembra parte di una storia lontanissima da loro (benché la rapacità egocentrica del personaggio sia ancora così diffusa). Alla domanda su quale valore rappresentassero i colleghi, siano essi pari grado, dipendenti o superiori, Michele ha risposto: “Non esisterebbe lavoro senza di loro. Se io mi sveglio tutti i giorni e vengo in ufficio non è per l’azienda vissuta come entità astratta, ma per le persone che lavorano qui. L’azienda si può chiamare come ti pare ma se non sei felice di vedere i tuoi colleghi ogni mattina dopo un po’ molli, non ne vale la pena”.
E’ un’affermazione più profonda e gravida di conseguenze di quanto appaia e apre ad un’ultima osservazione. Ultimamente il lavoro può essere vissuto come un idolo o come una condanna. Nel primo caso si ritiene che abbia in sé il suo significato. Così diventa onnicomprensivo e l’identità personale è appiattita e funzionale alla carriera o all’azienda. Vivere così identificati nel lavoro da sacrificare altre dimensioni della vita personale, prima o poi presenta il conto.
Esiste una versione uguale e contraria a questa concezione, e consiste nel pensare che la vita sia da un’altra parte rispetto al lavoro e che questo vada solo sopportato. Cedere a questa logica porta ad essere alienati, fuori da una dinamica di crescita personale, oltre al fatto che l’azienda diventerebbe in quest’ottica solo una vacca da mungere: viaggio al minimo e prendo lo stipendio.
In entrambi i casi il lavoro non viene usato come strumento di crescita, come una opportunità dinamica di cambiamento, ma viene subìto come un fattore ultimamente estrinseco a sé.
Quello che può fare la differenza invece è non rinunciare a vivere appieno tutte le risorse che la nostra natura umana ci offre. Dimensioni come energia, apertura mentale, amicalità, coscienziosità non sono solo indicatori che dicono di una personalità in cammino verso la sua strada, ma sono anche elementi che – è stato dimostrato – incidono sulla capacità di lavorare.
La tecnologia darà molte risposte ai bisogni umani, ma sarà sempre più decisivo imparare a porre le domande giuste. Nell’industria 4.0 sarà determinante avere persone intelligenti, flessibili, gratuite, capaci di usare al meglio le innovazioni, di sfruttarne le potenzialità.
Se i ragazzi continueranno ad avere l’atteggiamento giusto, perché non dovremmo essere ottimisti sul fatto che sapranno creare sviluppo e progresso, cioè quello che le generazioni prima di loro hanno fatto con molte meno risorse?