Questo è un tempo di distopie (neologismo anglosassone usato per descrivere società future indesiderabili). Le distopie tornano a dominare la narrativa cinematografica (è appena uscito il terzo capitolo del remake de Il pianeta delle scimmie), economica, sociologica e antropologica. Quest’ultima è piena di barbarie e di esseri umani snaturati che hanno acquisito caratteristiche proprie dei primati. Sicuramente questa “letteratura del declino” ha molto a che fare con il momento di transizione che stiamo attraversando, con l’incertezza di un cambiamento troppo acuto, con la paura che suscita il percepire che la terra conosciuta è scomparsa e non emerge quella nuova.

La digitalizzazione, per esempio, ha generato pulsioni apocalittiche. In un lavoro pubblicato qualche mese fa da Carl Benedikt, professore presso l’Università di Oxford, dal titolo “Il futuro non è più quello di una volta”, si prevede che quasi il 50% dei lavori attuali scomparirà con l’automazione. La quarta rivoluzione industriale suscita timori e reazioni simili a quelli provocati dal luddismo duecento anni fa, quando gli artigiani inglesi protestarono contro i telai industriali della prima rivoluzione industriale. Allora il nemico era la macchina, ora è l’attività digitale, che rappresenta il 20% del Pil mondiale, percentuale che aumenterà.

La questione è complessa e certamente gli effetti della “distruzione creativa” non saranno immediati, la digitalizzazione crea nuove forme di esclusione e, come ha affermato un rapporto presentato al World economic forum 2016, ci sono aree in cui possono essere distrutti 7 milioni di posti di lavoro per crearne solo 2. Tuttavia rispondere alla sfida e al cambiamento pensando che siamo di fronte alla “fine del lavoro”, come alcuni sostengono, vuol dire ignorare il più fondamentale dei principi economici: i bisogni sono infiniti, le risorse sono scarse.

Percepire una minaccia nel cambiamento piuttosto che un’opportunità dice molto delle risorse disponibili all’osservatore e di come si affronta il presente. La regola è utile sia per l’ambito economico che per quello antropologico. Rod Dreher, autore del bestseller spirituale degli ultimi mesi negli Stati Uniti (“The Benedict Option”), in uno dei suoi recenti post ha lodato il discorso pronunciato da Trump durante la sua visita in Polonia. Rod Dreher ha sostenuto che mantenere l’egemonia giudaico-cristiana – che significa guardarci come il popolo che incontra la propria unità nelle storie della Bibbia – è fondamentale per mantenere la nostra identità. “Poiché non lo facciamo da tempo, siamo in declino”.

L’egemonia giudaico-cristiana è certamente scomparsa (le egemonie spirituali sono di solito il risultato dell’alleanza con un qualche potere che non rispetta la libertà e secca la freschezza della verità). Le storie della Bibbia hanno smesso di costituire il popolo (perché la tradizione si limita al promuovere il cristianesimo e l’ebraismo ridotti a etica. Si è pensato che così sarebbero potuti essere universali e non ci sarebbe stato più bisogno di quel “primitivismo” che comporta il dipendere dagli avvenimenti che nutrono i racconti biblici). Cosa faremo adesso? Passeremo le giornate lamentando l’oscurità dei tempi e ci ritireremo, come suggerisce Dreher, in isole in cui conservare le cose essenziali?

Lo sguardo che percepisce una catastrofe economica o antropologica, e non un’opportunità, nel cambiamento, è uno sguardo sconfitto, uno sguardo parziale, ancorato nel passato. Il cosiddetto “declino” ha lasciato l’aria più pulita, ha lasciato scoperte le ferite che erano nascoste. Questo smarrimento, questa noia, questa impotenza, questo bisogno di tornare a ripensare e ricostruire, che significa lavorare, vivere insieme, ci lascia meno tentati da vecchie arroganze, più inclini a incontrarci gli uni con gli altri, meno disposti ad accettare acriticamente soluzioni, in tutti i campi, che da tempo non funzionano più. Se allora resta qualche stima per il presente, ci rende più disposti ad accogliere qualsiasi ombra di risposta che sia veramente tale.

Certamente siamo in un tempo ambiguo, in cui si ripetono risposte inaridite dall’ideologia. Ma questi giorni hanno anche la bellezza delle domande chiare. E una domanda si formula quando già si intuisce la risposta. I bisogni, non solo in ambito economico, sono infiniti. Parlano di qualcosa di positivo che è già in qualche modo presente.