Internata a ventott’anni in lager per aver scritto poesie religiose. Non è una storia del periodo staliniano, si è svolta negli anni ’80, alla vigilia della perestrojka. La protagonista, la poetessa Irina Ratušinskaja, è morta nei giorni scorsi a Mosca, quasi contemporaneamente alla vigorosa sottolineatura di papa Francesco circa la via alla santità indicata da “quei cristiani che, seguendo più da vicino le orme e gli insegnamenti del Signore Gesù, hanno offerto volontariamente e liberamente la vita per gli altri”.

I sette anni di lager e 5 di confino a cui era stata condannata nell’autunno 1982 erano dovuti alle sue poesie religiose, alla sua attiva collaborazione alla circolazione del samizdat, al suo “dissenso” nei confronti del regime. La sua condanna fece scalpore perché si trattava della pena più dura inflitta in quegli anni a una donna. “Ero giovane, energica e intenzionata a sopportare stoicamente tutte le inevitabili difficoltà della prigione, della cella d’isolamento e del lager — scriverà anni dopo —. Mi avevano accusato di scrivere versi di contenuto ortodosso — e, del resto, non ero la prima a subire persecuzioni dal regime ateo. Che cosa vale la tua fede, se non sei disposto a soffrire per essa? Eppure non credo che sarei riuscita a resistere senza spezzarmi, se non mi fossi sentita sulla spalla la Mano di Dio”.

Irina Ratušinskaja, come altre donne passate per i lager sovietici alla vigilia della caduta dei muri (Tat’jana Velikanova, Tat’jana Šcipkova e altre ancora), è stata una di coloro che hanno vissuto “l’eroica offerta della vita, suggerita e sostenuta dalla carità”, come ha scritto papa Francesco nel suo recente Motu proprio; oppure — per dirla con le parole di Solženicyn — una dei “giusti, senza i quali non si regge il villaggio, né la città, né la terra nostra”. 

Ha dato tutto per amore — paradossalmente, per gratitudine — senza prendere troppo sul serio se stessa, i disagi e le privazioni a cui andava incontro, ma prendendo tremendamente sul serio l’umanità dolente, ferita che le stava intorno, fino al punto di intitolare il libro di memorie sugli anni trascorsi nei campi di lavoro forzato della Mordovia, “Grigio è il colore della speranza”. Perché in quel mondo grigio di giacconi scoloriti, di muri scrostati, di polvere e di sbarre, non aveva mai visto venir meno un’umanità, una solidarietà, che le lasciava sperare nella rinascita della persona e della società. 

Aprendo il suo libro di memorie (uscito anche in italiano), questo vento di speranza e di libertà ti investe fin dalle prime righe, in cui Irina si sente in dovere di ringraziare “le persone che hanno avuto compassione di noi e sottobanco ci hanno aiutato — quasi tutte le delinquenti comuni, le sorveglianti, alcuni ufficiali… tutti quelli che mi hanno aiutato a sopravvivere, a ritornare in libertà, e quindi a scrivere la mia testimonianza”. A un intervistatore che le diceva tutto il suo rancore per gli aguzzini che le avevano reso così dura la vita, la Ratušinskiaja rispondeva tranquillamente: “Si sbaglia! Il rancore è un cattivo compagno, ti bruci subito. Il rancore rode e deforma l’anima, e quando si torna in libertà si è degli esseri isterici, squilibrati, rabbiosi. Noi invece vivevamo di emozioni positive, non rinunciavamo a far festa, non ci arrendevamo allo scoraggiamento”. 

Non importa che le condizioni di vita nella baracca del lager fossero effettivamente durissime (una volta in libertà, Irina ha dovuto sottoporsi a varie operazioni, e curarsi per anni per poter avere dei figli), ciò che importa è il riaffermare la dignità del vivere, anche in condizioni disumane.

Non ha avuto vita facile neanche in seguito, quando, liberata anzitempo da Gorbacev nel 1986, è stata privata insieme al marito della cittadinanza sovietica. Per dodici anni ha trovato ospitalità in Gran Bretagna e negli Usa, dove ha insegnato all’università, rivelandosi però un personaggio scomodo perché — come avrebbe dichiarato lei stessa — “per principio non ero d’accordo di lavorare contro la Russia”. Così, gli interessi ideologico-politici nei suoi confronti sono ben presto caduti. Quello che non è mai venuto meno è il rapporto con la Chiesa, alimentato dall’amicizia con il metropolita Antonij Bloom, a Londra. Riavuta la cittadinanza con El’cin, nel 1998 la famiglia rientra in Russia: “Non potremo mai perdere il senso della patria. Ne saremo mille volte scontenti, ma basta che qualcuno ce la tocchi perché sentiamo quanto profondo sia il nostro legame con essa. Non sappiamo spiegarlo. Ma qui sono i nostri padri… i nostri santi, che invisibilmente ci aiutano e ci proteggono”.

Il primo grande pubblico di Irina era stato il vagone che la trasportava dal carcere istruttorio al lager — stipato all’inverosimile di detenute, mai sazie di ascoltarla. Una volta, dopo una di queste “serate poetiche”, a Irina si avvicina una vecchietta, baba Tonja, che dal fagottino toglie una mela avvizzita: “Mangia, figliola, sei giovane. Io tanto in lager morirò, ma tu devi vivere e scrivere!”. 

Quel primo onorario per i suoi versi, la mela tiepida nelle mani della vecchietta, Irina non se lo sarebbe mai più dimenticato. Era la caparra di un Bene a cui non si può rispondere altrimenti che donandosi interamente. “Grazie, Signore — sarà la conclusione di Irina — di avermi fatto passare attraverso celle di rigore, trasferimenti, fame. Ho visto così come tanti sul mio cammino mi hanno aiutato. È stato questo silenzioso aiuto a far uscire i miei versi nel mondo libero, ad aiutare mio marito Igor’ a batterli a macchina. C’erano mani che ci porgevano un pezzo di pane quando stavamo morendo di fame. E occhi che ci sorridevano. E questo ha sciolto la mia arroganza e la sufficienza che avrebbero potuto far soccombere la mia anima. Come posso, allora, non amare la mia gente e non voler condividere con essa tutta la vita?”.

Credetemi, è capitato spesso:
isolata, in una notte d’inverno
d’un tratto m’invadon gioia e calore,
e vibra una corda d’amore.
E allora nell’insonnia apprendo,
stringendomi alla gelida parete:
qualcuno mi sta ricordando,
sta pregando Dio per me.
Miei cari, grazie
A quanti ci han ricordato e han creduto in noi!
Nei momenti più crudi di galera
Forse non ce l’avremmo fatta
A sopportare – di tappa in tappa,
senza chinar la testa, senza tremare,
se non fosse stato il vostro grande cuore
a rischiararci il cammino!