Un’Europa per molti versi all'”anno zero” sta ritrovando un momento di unità e vitalità attorno a “industria-quattro-punto-zero”, quella all’insegna della digitalizzazione dei processi produttivi. Italia, Francia e Germania (i principali promotori del Trattato originario del 1957) hanno deciso di creare un tavolo trilaterale per dare sostanza, ritmo e indirizzi davvero comuni alla promozione e allo sviluppo della “manifattura intelligente”.
È stato il governo italiano – in particolare il ministero dello Sviluppo economico – a proporre all’inizio del 2017 l’unione di due organismi bilaterali esistenti, il primo fra Italia e Francia, l’altro fra Italia e Germania. Entrambi i tavoli, nati per condividere nell’Ue le esperienze di industria 4.0, vedevano già sedute le intere “squadre nazionali” composte di tecnocrati, esperti di economia industriale e trasformazione tecnologica, imprenditori. Dalla loro unione è sorta una struttura agile, con dei percorsi definiti.
Un primo gruppo di lavoro metterà a fuoco la problematica degli “standard industria 4.0”, utili a consolidare una “european way” soprattutto per l’offerta esterna di prodotti, evitando che questo passaggio epocale di storia economica alzi nuovi “muretti” all’interno del mercato unico. Un secondo tavolo si occuperà specificatamente delle politiche pubbliche a promozione di industria 4.0: è qui che l’Italia potrà certamente spendere l’esperienza virtuosa del pacchetto di incentivi fiscali alla digitalizzazione industriale che ha permesso una crescita del 24,8 per cento degli investimenti (andati soprattutto a ridurre l’invecchiamento del parco macchine dell’industria italiana).
Il terzo working group, che il governo italiano ha suggerito con forza, si occuperà dello “SME’s engagement”, cioè di come industria 4.0 può e deve fertilizzare in chiave strategica il peculiare tessuto delle imprese piccole e medie nell’Europa continentale. Il gruppo è presieduto da Marco Taisch, professore del Politecnico di Milano, da tempo al lavoro presso la cabina di regia del ministero dello Sviluppo economico. In settembre il gruppo si riunirà in Italia per un primo vero brainstorming su come coinvolgere i milioni di europei tra imprenditori, addetti alla produzione, ricercatori e progettisti nelle università e negli hub di ricerca, regolatori.
La Trilaterale di Industria 4.0 si è data un primo calendario, ma al momento – e questa è una buona notizia – non ha scadenza. Produrrà raccomandazioni indirizzate alla Commissione di Bruxelles, ma l’intento è quello di rendere il nuovo patto un momento operativo permanente, una “zona di libero scambio di idee e di soluzioni” all’interno di un’Europa che ha smarrito molte delle sue vene originarie. E che non può rinascere solo attraverso l’Unione monetaria, quella bancaria o il Fiscal compact, ma che forse può rinascere ripartendo da un coordinamento delle politiche industriali.
Questa iniziativa è un segno importante per il nostro Paese, e offre quattro indicazioni. La prima: è possibile usare dell’integrazione europea in modo positivo, smettendo di pensare all’Europa solo come a un organismo da subire. Ma non è possibile farlo continuando a chiedere privilegi e sconti: servono invece iniziative concrete e fattive che valorizzino il vantaggio di essere insieme in un mondo divenuto globalizzato. Come già avviene in tanti campi: il Cern a Ginevra, l’Erasmus per la mobilità degli studenti, le iniziative scientifiche ed economiche legate all’agenzia spaziale europea, la collaborazione con l’Airbus per la costruzione di grandi aerei, la mobilità dei lavoratori intellettuali. Avere idee e progetti può farci abbandonare l’alibi del complesso di inferiorità o del vittimismo e mostrare quanto il progetto europeo sia utile.
La seconda: la ripresa dell’economia italiana non va ricercata soprattutto nell’utilizzo di più spesa pubblica, ma nel rilancio della produzione industriale innovativa e competitiva, così che a poco a poco sostituisca quella decotta, non più concorrenziale. E non è problema di piccola o grande industria, impresa privata o di Stato: ogni forma serve se sa cogliere la sfida dell’innovazione. Bisogna continuare a dire in modo chiaro e forte che chi propone i derivati e qualunque altro strumento di finanziarizzazione, chi sostiene un panorama imprenditoriale fatto solo di multinazionali di grandi dimensioni, chi vuole la svendita del patrimonio industriale per fare cassa, è all’origine della crisi, non della sua soluzione.
La terza opportunità riguarda l’occupazione. Pensare a soluzioni come il reddito di cittadinanza è proporre un assistenzialismo di Stato mascherato da intervento sociale che non può portare sviluppo. Questo tipo di provvedimento va pensato come modo per tamponare situazioni critiche in attesa di nuova occupazione, ma non può essere stabile. Nel lungo periodo, non si può che pensare di creare lavoro, soprattutto industriale, con il contributo di tutti, anche valorizzando le promettenti start up, fortemente innovative, che stanno nascendo.
Ne consegue l’ultimo punto: non esiste demiurgo politico che possa fare interventi miracolistici in economia (e siamo stufi di coloro che si attribuiscono incrementi dello zero virgola del Pil o promettono di creare il regno del bengodi con soluzioni impraticabili una volta preso il potere). Perché lo sviluppo nasce dal basso, dall’intrapresa di tutti. È vero che l’iniziativa economica ha bisogno di una politica industriale, ma questa non può essere dirigista o clientelare aiutando a pioggia tutti allo stesso modo, ma deve seguire ciò che accade in modo sussidiario aiutando chi investe, occupa, innova, esporta perché lo faccia di più. Il nuovo sviluppo è compito di tutti.