Negli ultimi giorni non sono mancate le occasioni in cui il dibattito pubblico è stato attraversato dal tema della legalità: l’anniversario della strage di via D’Amelio, le sentenze legate al circuito della criminalità che ha fortemente segnato la storia recente di Roma, le intercettazioni di coloro che – mentre Amatrice crollava – immaginavano già fiorenti affari derivanti dai piani di ricostruzione. Il nostro paese è oppresso dalla corruzione ed è la corruzione che genera i mostri del malaffare, del cinismo e dell’atteggiamento mafioso. Essere dalla parte della legalità non significa semplicemente promuovere comportamenti onesti o aggiungere qualche ora di educazione civica al percorso dei nostri figli: essere dalla parte della legalità significa combattere questa corruzione.

Essa non è qualcosa di astratto o di lontano, ma affonda le sue radici – si mostra – in un cuore corrotto. E’ il cuore il vero problema del nostro tempo, un cuore stanco, oppresso dall’ingiustizia e dal dolore, solo e sconsolato. In un cuore di siffatta solitudine s’insinua la tentazione di cercare un bene, qualunque bene, che possa dare requie e silenzio. Il piacere, il denaro e il successo sono dunque i tesori che sembrano poter finalmente saziare l’inquietudine del cuore.

La loro forza sta nel presentarsi sotto sembianze buone per crescere, gradite alle lacrime che ci portiamo dentro e desiderabili per realizzarsi, per compiersi. Un periodo di vacanza, un acquisto, un complimento di qualcun altro, un riconoscimento importante e significativo: tutto può essere lo spunto per anestetizzare il tormento del cuore. Non si tratta di guardare alla vita con una lente moralista, bensì di accorgersi quando gli altri ci danno fastidio: è allora, in quel “disturbo”, che emerge come il bene che cerchiamo di ottenere e di difendere ci abbia ormai preso in ostaggio, offrendosi quale unica possibilità di compimento per la vita. In questo senso le grandi ondate migratorie di questi anni ci hanno fatto il dono di aiutarci a vedere come tutta la nostra esistenza sia appesa non ad una speranza, ma alla salvaguardia dei benefici della società capitalista. “Che vengano pure i migranti – si dice – ma che si integrino”, ossia “che non mettano in discussione quel poco di benessere che siamo riusciti ad afferrare con le nostre forze”.

Così il tempo su questa terra trascorre nella paura che qualcuno o qualcosa ci possa rubare ciò che ci tranquillizza, ciò che ci rende così “nevroticamente sereni”, sia esso lo stipendio, la donna, il progetto ben pensato o le ferie. Il nostro paese sprofonda nella corruzione perché sprofonda nella cecità dell’anima, un’anima che non si rende conto che quello che violentemente pretende è ciò che miseramente la tiene in schiavitù. Quando tutto sembra impossibile, quando niente pare possa essere più sopportato dalla nostra storia e dalla nostra umanità, nella pienezza del tempo di ogni esistenza, avviene però Qualcosa, s’introduce Qualcuno, che riapre la possibilità di un miracolo, il miracolo del desiderio, il miracolo dell’ospitalità.

A volte è una gita, a volte un canto, a volte una frase detta di fretta da un amico, in alcuni casi perfino una malattia o un dolore: la ferita si riapre, l’anima ricomincia ad attendere, a chiedere – come dicevano gli antichi – “il miracolo di un qualche cambiamento”. E’ così che è iniziata la storia della Salvezza. Gesù Cristo non è venuto ad estirpare la corruzione o a fare grandi riforme: Egli ha semplicemente riaperto la partita del cuore, provocando in coloro che incontrava “un bisogno che – come afferma Sant’Agostino – li costringeva ad una fatica che la loro cecità non sopportava”, ossia la fatica di ricordare se stessi, di ricordare che cosa davvero voleva la propria vita.

A volte, sul far della sera, questo sentimento di sé sembra qualcosa di antico, un ricordo di giovinezza. Eppure, di fronte alla corruzione del nostro tempo o a coloro che approdano nelle nostre terre, esso è quasi l’ultima eco di una promessa che un giorno ci è stata fatta. La promessa che la vita si sarebbe compiuta non attraverso la rabbia della nostra “fame”, bensì mediante la tenerezza di un semplice – eppure lungamente atteso – abbraccio d’amore.