Viviamo tempi interessanti. Lo sviluppo dell’intelligenza artificiale al di là di quello che avremmo potuto immaginare qualche anno fa e la crisi di una certa forma di pensiero moderno pongono sfide appassionanti. Forse possono essere un invito a recuperare un modo di pensare e di parlare diverso, più umani. L’intelligenza artificiale (IA) sembra riuscire a realizzare il vecchio sogno di creare sistemi perfetti che, almeno in alcuni aspetti della vita, risolvano la fatica di dover esercitare la libertà. 

Le “macchine pensanti” vengono in aiuto dell’uomo in ambiti decisivi. La polizia di New York usa da anni l’IA per seguire o smettere di seguire un sospetto. È sempre più frequente per gli operatori di mercato utilizzare il trading ad alta frequenza, un sistema che prende le decisioni di acquisto e di vendita di titoli in una frazione di secondo. Quasi la metà delle transazioni sulle borse europee avviene in questo modo e sono quindi diventati obsoleti i modelli di analisi del comportamento basati sul modo di investire degli uomini in carne e ossa. In tutti questi casi, i dati vengono elaborati e le decisioni sono prese attraverso algoritmi. L’algoritmo, per definizione, è un insieme di regole che permette di ottenere un risultato prevedibile.

Pochi giorni fa, Ramón López de Mantaras, vincitore del Premio Walker alla Conferenza internazionale sull’intelligenza artificiale, ha avvertito dei rischi che si corrono nel lasciare che gli algoritmi prendano decisioni per conto proprio. In primo luogo, perché nella selezione dei dati si creano distorsioni che è necessario correggere. Inoltre, perché una cosa è la conoscenza, un’altra i dati.

Tutte le possibilità offerte dai Big Data – i risultati nel campo di intervento umanitario e sociale sono già molto interessanti – riportano a galla la distinzione tra informazione e conoscenza. “La conoscenza – ha evidenziato Mantaras – implica che si comprenda come si prende una decisione. Con i dati, l’algoritmo raggiunge una decisione, ma non abbiamo accesso al ragionamento che c’è dietro. Si tratta di una scatola nera. Se lasciamo che un algoritmo prenda decisioni che ci riguardano dovremmo poter chiederne conto”. Le macchine pensanti possono prendere decisioni e nei fatti gli abbiamo consentito di farlo. Ma secondo Mantanars non possono conoscere nel senso letterale del termine, perciò è assurdo ritenerle responsabili. Senza sapere cosa si sta conoscendo non c’è conoscenza e non c’è libertà. Batty, il replicante di Blade Runner, che sta per morire, nel lamentarsi perché tutto quello che ha visto si perderà come “lacrime nella pioggia” non è più IA, ma si è trasformato in un’intelligenza umana che desidera l’eterno.

È impossibile non ricordare HAL 9000, il supercomputer che Kubrick ha reso protagonista 50 anni fa del suo 2001: Odissea nello spazio. Riascoltando gli accordi potenti della colonna sonora di Strauss si ha l’impressione che il dibattito sulle possibilità e i limiti dell’IA riapra la discussione su cosa sia il conoscere. L’informazione, la sola informazione, non può mai essere presa in forma passiva. Con Kubrick torna la grande Maria Zambrano: “La realtà che in un certo senso si presenta di per se stessa, travolgente, inesorabile, data la condizione umana chiede di essere cercata”. L’IA sembra sottolineare che non c’è alcun algoritmo che possa farci prescindere dai noi stessi e dalla nostra libertà.

Si parla di rivoluzione dei dati, ma piuttosto dovremmo parlare di rivoluzione dell’informazione. Il meglio del pensiero degli ultimi anni ha reso evidente che la cultura occidentale è stata finora caratterizzata proprio dal non considerare nulla come un dato, come qualcosa di dato, ma come qualcosa di necessario. Il miglior Finkielkraut, nelle sue pagine contro il razionalismo, ha spiegato già alcuni anni fa che la nostra sensibilità ha trasformato tutta la realtà in conseguenza di alcune cause necessarie e sufficienti. La sicurezza di quelli che il filosofo francese chiama i moderni si basa nell’estendere i principi delle leggi naturali all’ambito del comportamento umano. È tipico dell’ultima generazione di intellettuali che credevano in un sistema ideologico chiuso. Quelli che negli anni ’60 e ’70 erano marxisti e strutturalisti e ora sono apostoli ardenti del liberalismo. Hanno abbandonato il marxismo, ma mantengono ancora il vecchio schema ideologico della mentalità “necessaria”. Nelle nuove generazioni questa vecchia e soffocante sicurezza è scomparsa. Il semplice fatto che Finkielkraut abbia parlato alcuni anni fa della categoria dell’evento come quella non necessaria per avvicinarsi alle cose dice molto del cambiamento che potrebbe essere in atto. Così come è riapparso il soggetto che conosce, allo stesso modo stiamo recuperando il significato, letterale, della parola dato.

Le aperture nel mondo del linguaggio sono più antiche. Già alcuni anni fa c’era chi diceva che le parole non sempre e obbligatoriamente descrivono eventi passati o leggi universali e necessarie che sono rimaste fossilizzate. Il britannico John Langshaw Austin negli anni ’60 ha parlato di “enunciati performativi”. Ci sono parole che non si limitano a descrivere i fatti, ci sono parole che realizzano i fatti di cui si parla nello stesso momento in cui si pronunciano. Si potrebbe aprire un tempo di gerundi, un tempo in cui riconoscere che non ci sono cose se non vengono date, che non c’è conversazione realmente umana senza che quello di cui stiamo parlando non stia in qualche modo accadendo.

Di quest’ultima cosa c’eravamo già accorti prima di leggere i filosofi del linguaggio. Lo avevamo notato per quanto ci stancassero e annoiassero coloro che da anni vanno predicando vere dottrine, facendo analisi accurate, sostenendo che la ragione le assiste senza che, né a noi, né a loro, accada nulla. Fino a poco tempo fa sembrava sufficiente essere dottrinalmente corretto, analiticamente impeccabile e rendere la cultura autentica. Ma ora non più. Abbiamo imparato che non conviene mai dire qualcosa che, in un modo o nell’altro, non sta accadendo. Perché non vogliamo parole stanche, abbiamo urgenza di vivere.