L’ipotesi di introdurre la cosiddetta flat tax ha fatto irruzione nel dibattito politico-economico italiano, dopo mesi di escalation internazionale. L’amministrazione Trump ha posto la la flat tax al 15% sui redditi d’impresa (schiacciando l’attuale ventaglio 15-38%) al centro di un ambizioso progetto di riforma tributaria. Ma anche Emmanuel Macron, fin dalla campagna elettorale, ha annunciato la volontà di puntare sulla “aliquota unica”.

La Casa Bianca repubblicana è parsa lineare nel sostenere una classica ricetta “offertista”: meno tasse sul business per rilanciare il business (più investimenti industriali, più occupazione e quindi più consumi; in ultima istanza più Pil). Trump ha naturalmente dovuto subito fronteggiare sbarramenti politici e mediatici sul rischio di buco nel bilancio federale. Dal presidente è giunta una replica per metà keynesiana (se il Pil corre aumenta in proporzione il gettito fiscale) e per metà reaganiana: taglieremo tutte le spese improduttive dell’amministrazione federale (a cominciare dall’Obamacare).

L’Eliseo sembra invece puntare su un’interpretazione più articolata del nuovo mantra egualitario in campo fiscale. Il “pacchetto Macron” prevede un’aliquota unica al ribasso del 30% per tutti i redditi di capitale (interessi, dividendi, profitti di Borsa); un riordino semplificativo – sempre al ribasso – della tassa sulla proprietà mobiliare e immobiliare; e un taglio dell’aliquota sui redditi d’impresa (dal 33,3% al 25%) abbinato alla stabilizzazione degli incentivi per l”innovazione e per le start-up dei giovani imprenditori. A differenza di Oltre Atlantico, il “modello Macron” estende i benefici fiscali diretti a imprenditori o grandi investitori anche i piccoli risparmiatori e i piccoli proprietari immobilari. E mette un’enfasi specifica di politica industriale: la stessa che il governo italiano ha provato a mettere in “Industria 4.0”. Anche il nuovo presidente francese dovrà vedersela – come il governo Italiano – con gli sceriffi della Ue e delle agenzie di rating. ma il taglio annunciato alle spese militari è stato certamente un inizio a effetto.

Negli Usa e in Francia, al di là delle declinazioni tecniche e delle polemiche politiche, “flat tax” è comunque divenuta subito sinonimo di “scossa fiscale”: di exit strategy pro-ripresa da una fase di pesantissima pressione tributaria (in Europa più che negli Usa dovuta al lungo assorbimento della crisi finanziaria globale). E’ su questa scia che anche in Italia la flat tax ha preso quota come termine di paragone per ogni piattaforma di politica e finanziaria.

Cavallo di battaglia storico del campo liberale – anche in Italia – la flat tax è stata ultimamente strattonata dalla Lega Nord in chiave provocatoria: un’aliquota fiscale unica al 15% è chiaramente orientata a programmi para-secessionisti di dubbia realizzabilità. La flat tax è parsa ridursi a involucro populistico di fratture traumatiche nel patto fiscale dello Stato unitario, lontano da rimodulazioni in funzione anti-crisi.

Sotto l’etichetta “flat tax” è stata peraltro lanciata anche una proposta di Nicola Rossi, economista dell’Istituto Bruno Leoni ed ex senatore Pd. Nel suo disegno l’aliquota del 25% sarebbe letteralmente unica: varrebbe per l’imposizione sul reddito delle persone fisiche (oggi dal 23% al 43%) e per le società (24%), per l’Iva (21%) e per la sostitutiva sulla rendite finanziarie (27,5%). Il suo pacchetto prevederebbe d’altronde l’abolizione secca sia dell’Irap che dell’Imu. In estrema sintesi, la suo progetto di ricostruzione della finanza pubblica punterebbe a una riduzione parallela di alcuni punti percentuali sia della pressione fiscale (oggi al 42,6%) sia della spesa pubblica: quest’ultima tagliata da una review inizialmente pari allo 0,6% del Pil e dell’1,6% a regime. All’introduzione di un cosiddetto “minimo vitale” (con abolizione contestuale della “vigente congerie di prestazioni assistenziali o prevalentemente assistenziali” farebbe riscontro una “ridefinizione delle modalità di finanziamento di alcuni servizi pubblici (ed in particolare della sanità). Verrebbe mantenuto fermo il principio della gratuità del servizio per la gran parte dei cittadini ma imputandone il costo assicurativo, ai soli cittadini più abbienti, garantendo loro contestualmente il diritto di rivolgersi al mercato”.

L’ipotesi ha acceso il dibattito estivo pre-elettorale molto più di quanto sembri aver suscitato veri interessi presso le forze sociali, sia quelle imprenditoriali che quelle sindacali. Un”appiattimento” dell’Iva di quattro punti verso l’alto non pare in sintonia con un Sistema-Paese ancora trasversalmente convinto che sia assolutamente da evitare il pericolo depressivo di un aumento automatico dell’aliquota va dal 21 al 22 per cento. Neppure l’ipotesi di abolizione di Irap e Imu sembra valerne i rischi, così come è tutto da verificare che le cosiddette “classi abbienti” (a partire da quale imponibile?) risponderebbero con favore all’abbattimento dell’Irpef in cambio di perdite indefinite di welfare pubblico, sanitario e previdenziale. Non da ultimo, spending review e lotta all’evasione sono relativamente facili da stimare in termini “macro”, puntualmente difficili da attuare in concreto (e questo vale anche per Trump e Macron alle prese con le rispettive “caste” parlamentari, burocratiche, corporative).

Se flat tax rimane comunque espressione sintetica di “abbassamento della pressione fiscale in funzione della ripresa”, l’Italia (l’Europa) non ha torto di differenziare la propria interpretazione da quella di “America First”, che tradizionalmente comincia a tagliare le tasse ai ricchi, poi si vedrà. Le tasse vanno tuttavia abbassate – allineate in chiave di rialzo omogeneo delle “pari opportunità” – a tutti coloro che generano Pil reale, principalmente ad essi: che sono diversi da coloro che investono capitali finanziari accumulati. Sono imprenditori che producono nuova ricchezza innovando, che verificano il proprio valore sui mercati globali esportando, che mostrano la differenza fra manifattura e speculazione assumendo. Investimenti in innovazione, quote e crescita dell’export, aumento dell’occupazione soprattutto giovanile: sembrano questi i parametri di merito utili a indiruzzare una “frustata fiscale” che in linea di principio può risultare benefica. Ma non solo a tavolino. E neppure come semplice slogan elettorale.