Milano, città “tessuta di acque”. L’immagine è di Pietro Lembi, uno studioso che una decina di anni fa pubblicò un bellissimo libro dedicato al rapporto tra la città e l’acqua (Il fiume sommerso, Jaca Book). Un libro da riprendere in mano oggi per dare sostanza e ragioni al dibattito sulla proposta di riapertura dei Navigli lanciata dal sindaco Beppe Sala: i milanesi saranno chiamati ad esprimersi con un referendum e un libro così certamente aiuta a votare con consapevolezza.

Ad esempio leggerlo è utile a capire che l’acqua a Milano è sempre stato un fattore di modernità. Quando il grande architetto Filarete arrivò chiamato da Francesco Sforza colse subito che questa era la leva per innescare uno sviluppo urbano. Nel suo Trattato ci sono stupende visioni in prospettiva di una città in cui ci si può muovere con facilità navigando. Una città tenuta pulita e quindi con standard igienici alti proprio grazie al reticolo di acque “ordinate”. Tutte premesse che resero possibile al Filarete di costruire, grazie ad una donazione di Francesco Sforza, il primo grande ospedale moderno d’Europa, la Ca’ Granda, edificato non a caso con il lato lungo che si affacciava sul Naviglio. Cosa che permise non solo di garantire livelli di pulizia nettamente sopra la media, ma addirittura rese possibile allestire un sistema di servizi igienici distribuiti capillarmente lungo le crociere. Quanto a Leonardo, che aveva un assoluto debole per le acque, a Milano si era trovato a casa sua: disegnò addirittura una Pianta Idrografica della città, oggi custodita nella Biblioteca reale di Windsor. 

Nel 1929 la situazione era purtroppo molto diversa. La città non aveva saputo mantenere “ordinate” le sue acque e così fu gioco facile all’amministrazione fascista delle città far passare una visione tutta pervasa dalla retorica della modernità. E in quattro e quattr’otto si arrivò alla copertura dei Navigli: le acque, scrive Lembi, furono allontanate dalla città. Sigillato quel mirabile sistema lungo 5 chilometri e 253 metri, che cinque conche aveva reso navigabile, e 22 ponti sempre attraversabile. Fu uno choc, e 20 anni dopo uno scrittore come Giuseppe Marotta passando per via Francesco Sforza (proprio di fronte a quel mirabile ospedale…) batteva il piede sull’asfalto chiedendosi: “Vecchio Naviglio, ti hanno sepolto qui e chi te lo celebra ogni tanto un piccolo rito di suffragio?”. 

Non era solo nostalgia. Era coscienza che non si può privare una città di ciò di cui è tessuta. Ora Milano ritorna sui suoi passi, congegnando un sistema che riporterà alla luce metà di quella cerchia, portando le acque della Martesana sino alla Darsena. Proprio quella Darsena che nel 2015 aveva dato il primo segnale: appena risistemata con l’occasione dell’Expo è diventata una calamita nella vita della città. Quasi un meccanismo inconscio che ha portato la città a celebrare il ritrovamento del proprio “elemento”.

Ora la proposta è di continuare su quel percorso iniziato. Idea giusta, anche affascinante, a patto che si abbia la forza di pensarla come scelta all’interno di un processo di modernizzazione. Ad esempio aprire il Naviglio comporta privare Milano di una fondamentale arteria di traffico: questo vuol dire che si sta pensando ad una città destinata a superare l’epoca dell’auto. Una città che si muove senz’auto, meglio dell’auto: non è un caso che il primo atto della riemersione del Naviglio sarà quello di aprire un canale sotterraneo approfittando degli scavi della M4. Inoltre il Naviglio potrà accogliere le acque rilasciate dai condomini che si riscaldano e raffreddano con il geotermico, andando a pescare nelle falde. Oggi quell’acqua pulita finisce nelle fogne. Bentornati i Navigli se ripropongono quel modello mirabile che aveva conquistato il Filarete: il sistema delle “acque ordinate”.