Tanti dei nostri figli in questi giorni staranno pensando a cosa fare dopo la scuola superiore. Una decisione importante quella che devono prendere e per questo è bene che abbiano tutte le informazioni che servono. La prima è che non basta il “pezzo di carta”, qualunque esso sia, perché alla lunga ciò che paga è una compromissione personale totale con quello che si studia: è questo che farà la differenza permettendo di addentrarsi nel mercato del lavoro con successo e soddisfazione, qualunque siano i talenti che si hanno (tutti hanno dei talenti, bisogna solo farsi aiutare a scoprirli). Il Rapporto “Sussidiarietà e… neolaureati e lavoro” aveva mostrato, dati alla mano, quanto contasse in ambito lavorativo un atteggiamento proattivo avuto verso lo studio.

Ciò premesso, però, occorre ribadire che laurearsi aiuta eccome a trovare lavoro. La percentuale di occupati tra i laureati, dopo cinque anni dalla fine degli studi, è dell’87% per le lauree triennali e dell’84% per la lauree magistrali, contro il 46% dei diplomati. Non solo: fra i diplomati che lavorano il 63,2% ha un’occupazione non stabile, mentre tale percentuale è del 41,8 tra i laureati. Il confronto è impietoso. L’enorme platea di disoccupati e inattivi sotto i 30-35 anni è quindi composta di diplomati e ragazzi con la terza media.

C’è naturalmente una differenza tra indirizzi di studio, che non sono ugualmente premiati dal mercato del lavoro, come mostrano i dati di Almalaurea: mentre la percentuale di chi ha un’occupazione a un anno dalla laurea tra medici, ingegneri, economisti, chimici, matematici, fisici è circa del 92%, la quota scende a circa 80% per i laureati in materie umanistiche (lettere, filosofia, storia, psicologia, lingue). Eppure dopo la Romania siamo il Paese europeo con la percentuale di laureati più bassa e, anzi, la quota dei diciannovenni immatricolati è leggermente calata passando dal 30,8% del 2005/06 al 29,4% del 2014/15 (dati Istat). Le immatricolazioni non sono certo calate perché l’università italiana è di scarsa qualità, come ogni tanto si sente dire.

La qualità della ricerca, sta crescendo: l’introduzione, da parte dell’Anvur, della valutazione dei lavori scientifici e la diffusione di siti mondiali di valutazione da tutti consultabili, sta via via aiutando a rendere palese chi lavora, chi è valido e chi no. Inoltre, il processo di globalizzazione ha di fatto imposto la pubblicazione su prestigiose riviste internazionali fin dagli anni del dottorato: questo sta elevando il valore dei giovani ricercatori che devono ormai confrontarsi con i migliori colleghi di tutto il mondo.

Si potrebbe andare avanti su questo punto vantando i grandi risultati della ricerca a fronte della scarsità di finanziamenti. E se questo non bastasse si può aggiungere che il 9% circa dei laureati italiani emigra trovando lavori di eccellenza in imprese e atenei prestigiosi.

Piuttosto, la diminuzione del numero di chi sceglie di iscriversi all’università ha due ragioni principali: a monte e a valle del percorso universitario. A monte troviamo fattori economici: il calo delle iscrizioni diventa non a caso più rapido negli anni della crisi. Periodo in cui le tasse universitarie sono aumentate e le somme stanziate per il diritto allo studio (borse, mense e alloggi) sono state tagliate dai budget dell’università (in 5 anni gli atenei hanno subito una sforbiciata del 15% al loro finanziamento). In questa situazione per alcuni è diventato troppo oneroso rimandare la ricerca di un lavoro.

Infine, a valle troviamo la responsabilità delle imprese che, come dice Ivano Dionigi, presidente di Almalaurea, «preferiscono assumere diplomati invece che laureati, anche per pagarli meno. L’Italia vanta il minor numero di laureati tra i propri manager».

In conclusione, quello che c’è da capire è che l’università non è la grande malata, ma la grande risorsa, sia per i nostri ragazzi che per l’intero paese.