Mentre scrivo Charlie Gard è ancora vivo nel Great Ormond Street Hospital di Londra. Il bambino di undici mesi con una rara malattia genetica, la cui vita sarebbe impossibile senza l’aiuto di una macchina che lo fa respirare, è figlio di due genitori giovani che non vogliono mollare, mentre l’ospedale dice di aver provato tutte le vie conosciute per guarirlo. Nelle ultime ore è intervenuta una importante novità che di per sé smentisce questo assunto; l’ospedale ha sottoposto nuovamente la questione ai giudici, ma ad essa voleva e vuole attenersi. Per i medici è ora di cessare le cure invasive come quella del respiratore e lasciare che la vita di Charlie vada per il suo corso naturale cioè la morte. Non vogliono che soffra inutilmente.

Vorrei qui offrire un paio di osservazioni, prese dalla mia lunga esperienza nell’accompagnare sia famiglie come quella di Charlie, sia operatori sanitari come quelli dell’ospedale.

La prima osservazione è che l’amore desidera dare vita. Chi ama desidera la vita per l’amato. E vivere per noi umani è una questione di rapporti.  

Riceviamo la vita attraverso rapporti che portano significato alla nostra esistenza. Perciò quando parlo con le famiglie che devono decidere la cura per il loro amato, e cominciano a dire parole come “l’unica cosa importante è che non soffra” e perciò chiedono dosi di antidolorifici che lo renderebbero inconscio, io cerco di aiutarle a non cedere a questa angoscia che le assale, ma di pensare a cure che forse possono permettere contatto e comunicazione fra loro e il loro caro, anche se questo potrebbe aumentare il rischio di provare maggiore sofferenza.  

Molte occasioni mi hanno fatto vedere che contatto e comunicazione sono capaci di rendere sia il paziente sia i suoi cari pieni di gratitudine in quelle circostanze drammatiche. La sofferenza è da combattere, ma non a qualunque costo. Come la vita per ognuno di noi: la prima cosa per vivere è avere qualcosa per cui vale la pena vivere. Così, dentro rapporti che ci danno la vita, si possono vivere anche queste circostanze, pur dolorose. 

Anche nel caso del piccolo Charlie, la sofferenza non è l’unico criterio ragionevole per come procedere con le cure. Favorire i rapporti che lo fanno vivere fa parte della cura della persona, anche la persona malata e sofferente che non guarirà.

La mia seconda osservazione ha a che fare con le persone che hanno accettato la sfida di aiutare il malato dentro l’ambiente sanitario. I molti anni trascorsi come cappellano ospedaliero e adesso come cappellano di una fondazione di cura mi hanno aiutato a identificarmi con le prove, le speranze e le difficoltà di chi si assume il compito della cura. Ho vissuto pienamente e affrontato insieme a queste persone casi molto dolorosi. Le ho viste soffrire quando era chiesto loro di fare lo sforzo di tenere in vita attraverso misure invasive, in apparenza violente, la persona il cui sistema biologico era compromesso oltre ogni speranza. Invece di sentirsi orgogliose dell’impegno di aiutare la vita di una persona, cominciavano a sentirsi complici in un processo di tortura senza senso. Si sentivano in colpa e facilmente nasceva un sentimento di rancore verso la famiglia o il medico che le obbligava a continuare. In quei casi l’atmosfera del reparto diventava davvero pesante e ne soffrivano di conseguenza anche le cure agli altri malati.

Tuttavia, anche in questi casi estremi, quando ho visto infermieri e medici piangere davanti al compito di infliggere certe misure sul corpo del malato, e quando ho visto l’incapacità delle persone al lavoro di incrociare gli sguardi dei familiari per mancanza di simpatia, non ho mai sentito suggerire da nessuno che la decisione finale fosse che il malato non dovesse restare con i suoi cari, per quanto impreparati potevano essere o irragionevole potesse sembrare. 

Non ho partecipato a nessuna riunione in cui il personale sanitario voleva arrogarsi il ruolo di essere il responsabile ultimo del malato. Questo rapporto così vitale non apparteneva a loro. Era sempre chiaro a tutti che il punto era aiutare i familiari nel fare i passi dolorosi necessari per capire che spettava loro accompagnare il loro caro all’uscita da questo mondo, lasciarlo andare. Mantenere questo rapporto è sempre stato palesemente nell’interesse del malato.

Perciò sono stupito e non poco preoccupato dal vedere che questo ruolo è stato usurpato dall’ospedale nel caso di Charlie Gard. Fra le tante notizie non ci sono informazioni che fanno sospettare che i genitori di Charlie siano incompetenti o disinteressati. Tutti possiamo sbagliare. Ma sento brividi di orrore leggendo che in tribunale c’è stato chi ha sostenuto i diritti di Charlie contro i suoi genitori. Il bene, come la vita, di Charlie passa invece attraverso il rapporto unico che c’è fra figlio e genitori. E non è vero che “l’unica cosa importante è che non soffra”. La cosa importante per l’esistenza di Charlie è che viva, e questo gli viene attraverso il rischio d’un rapporto d’amore, come per tutti noi, un rapporto che potrebbe farci soffrire, sbagliare, ma che ci fa anche vivere. Consegnare la vita del piccolo bambino al rapporto eterno col Padre Celeste passa attraverso questo rapporto coi genitori. Non vedo come potrebbe essere nell’interesse del bambino rimpiazzare questo rapporto.

Se i dottori hanno ragione, Charlie non vivrà a lungo, macchine o no. Nel frattempo il suo rapporto vitale è quello con i suoi genitori. Tocca a noi di accompagnarli in questo grande compito, sia che siamo convinti che hanno ragione, sia che pensiamo che stiano sbagliando, perché è lì — in quel rapporto vitale — che sta l’interesso vero di Charlie.