“È impossibile salvare la Russia con sentimenti negativi. La rivoluzione ha appena avvelenato la Russia di rabbia e l’ha ubriacata di sangue. Che ne sarà della povera Russia se la controrivoluzione l’avvelenerà con nuova rabbia e l’ubriacherà con nuovo sangue? Sarà il prolungamento del sanguinoso incubo rivoluzionario e non un risveglio dall’incubo. Il partito della rabbia e dell’odio è uno e indivisibile, riunisce i comunisti e i monarchici estremisti. Nessuna strada può essere aperta da elementi negativi, la vita esige al suo principio elementi positivi. Il nostro amore deve sempre avere la meglio sul nostro odio. Dobbiamo amare la Russia e il suo popolo più di quanto odiamo la rivoluzione e i bolscevichi”.
Non trovo espressione migliore di questa di Nikolaj Berdjaev per sintetizzare la lezione che possiamo ricavare oggi, per noi, dalla rivoluzione russa del 1917 (e che proveremo a esplicitare tra qualche giorno in una mostra curata da Russia Cristiana al Meeting di Rimini).
A scrivere queste righe vertiginose, nel 1924, era un emigrato che non solo in brevissimo tempo si era trovato spogliato di tutto — potremmo pensare ai tanti profughi di oggi — ma assisteva impotente allo sfascio di un intero paese, alla carneficina di milioni di suoi conterranei, torturati, uccisi, deportati, internati in lager e prigioni… Da dove veniva — e da dove può venirci, se la proiettiamo sull’oggi — una posizione così limpida, pacata e coraggiosa, profondamente laica e al tempo stesso realmente cristiana?
Berdjaev, molto lucidamente, insieme ad alcuni altri suoi contemporanei aveva visto nella guerra mondiale innanzitutto una “tragedia europea”, la “fine dell’Europa”, perché rappresentava il crollo di un continente che non era identificabile con un’espressione geografica ma era nato da un’idealità che poneva al suo centro il valore primario della persona, intesa come libertà e responsabilità. E parallelamente, espressa in maniera struggente da padre Sergej Bulgakov, si faceva strada la convinzione che neppure la rivoluzione era una questione soltanto russa, locale, perché aveva semplicemente fatto venire alla luce “il male che fu seminato mille anni fa, in quei tristi giorni in cui giunse a maturazione l’ultima discordia tra la cattedra di Costantinopoli e di Roma”. La diagnosi non può limitarsi alla politica o all’economia: la crisi dell’Europa di cui tanto si parla oggi, la crisi della Russia cent’anni fa, era ed è la crisi di una divisione che comincia nel cuore dell’uomo per estendersi a popoli e civiltà intere.
La genialità del giudizio di uomini come Berdjaev e Bulgakov sta nell’essere riusciti a sfuggire alla spirale dell’ideologia, nell’aver saputo resistere alla tentazione di contrapporre ideologia a ideologia, magari proponendone una di segno positivo, tradizionale, ispirato a valori morali e cristiani. All’ideologia –— negatrice della realtà, ridotta a parvenza illusoria e deformata — può contrapporsi solo un’esperienza viva, che non ha a che fare con un’astratta “umanità” ma con l’uomo concreto, il singolo uomo che soffre, ama, desidera, spera: con l’uomo che è in noi stessi, innanzitutto. Non è un caso che Berdjaev e i suoi amici fossero passati attraverso il materialismo, il marxismo, e che proprio alla vigilia della rivoluzione fossero approdati al cristianesimo scoprendovi l’autentico umanesimo, vivendo in ore drammatiche un’autentica primavera della Chiesa.
“Affidare, consacrare il mondo alla misericordia di Dio è anzitutto un giudizio sul mondo, è uno sguardo diverso sul mondo e il suo destino. È un giudizio, uno sguardo pieno di speranza. È come un guardare oltre, ma senza utopia, senza sogno, senza astrazione, senza fuga e senza disprezzo”, ha scritto un monaco benedettino. Ormai abituati a vedere interi popoli o gruppi etnici o sociali tenuti in ostaggio da interessi e ideologie che li sfruttano spietatamente per i proprio giochi di potere, non possiamo non restare stupiti dal realismo profondo di chi rimette al centro l’amore all’uomo.
E altrettanto stupefacente è constatare che salde radici abbia messo questo giudizio nella cultura russa. Infatti, sarebbero trascorsi decenni, il rullo compressore dell’ideologia sarebbe passato e ripassato sulla terra russa spianando e livellando il popolo attraverso il sistema repressivo, gli strumenti propagandistici, un’educazione sovietica capillare e scrupolosa volta a creare in provetta “l’uomo nuovo”: eppure le parole di Berdjaev, “il nostro amore deve sempre avere la meglio sul nostro odio. Dobbiamo amare la Russia e il suo popolo più di quanto odiamo la rivoluzione e i bolscevichi”, sarebbero riemerse più e più volte, nei martiri e confessori della fede, nel “dissenso” e nella letteratura del samizdat. I “diversamente pensanti”, come si sarebbero fatti chiamare i dissidenti, non erano innanzitutto “contro” un regime, ma “per” la rinascita della persona nella sua verità e “bellezza crocifissa” (così ne avrebbe descritto l’apparire Jurij Galanskov nella sua poesia Manifesto umano). In geni letterari come Pasternak, Solženicyn, Šalamov, Mandel’štam (per non citarne che alcuni); nelle lettere dalle prigioni di ortodossi, cattolici, battisti; negli appelli e documenti del movimento per i diritti umani questo amore per l’uomo sarebbe diventato una linfa vitale che continua ancor oggi a circolare in profondità per tutta la Russia, diventando un fattore di rinascita per l’Europa, innescando processi che ci dicono che il cuore umano è insopprimibile.