Mercoledì scorso ho seguito al Meeting di Rimini l’incontro intitolato “Una scuola da grandi”, moderato da Giorgio Vittadini, le cui conclusioni non sono passate inosservate e a qualcuno non sono piaciute. Ma procediamo con ordine.
Non sono un addetto ai lavori pedagogico-scolastici. Sono andato all’incontro, dicevo, spinto da un mio particolare interesse sorto per tre circostanze: 1) ho un nipotino di 4 anni; 2) faccio catechismo a dei bambini di quinta elementare; 3) do una mano nell’aiuto allo studio a ragazzi delle scuole superiori presso un’iniziativa strutturata e gratuita, a Milano, che si chiama Portofranco.
Il nipotino è del tipo che vuol sapere se i gatti sanno di essere gatti, cioè non si è lasciato ancora censurare le domande. I bambini del catechismo mi arrivano già cotti e rimpirliti da sei ore di scuola fatte e ore di danza, nuoto, basket e altro ancora che li attendono: giornate zeppe decise da altri, aria poca e libertà nisba. I ragazzi multicolor di Portofranco sono… tutta la spettacolosa varietà dell’umano nell’età più tosta. Ogni giorno capisco che di fronte a questi interlocutori, non sono nato imparato. Io ho naturalmente, non foss’altro che per ragioni anagrafiche (ma non solo), il mio bel bagaglio di convinzioni, ma mi rendo conto che trasmetterle non è come travasare da un contenitore all’altro. Devo guardare l’altro e mettermi in discussione in un percorso con lui. Se no il mio bel bagaglio diventa un sarcofago.
Ecco, guardare è la parola chiave che ho trattenuto dall’intervento di Francesca Zanelli, insegnanti di liceo a Sesto San Giovanni. Non avrebbe cavato un ragno dal buco se non avesse avuto una sguardo e un dialogo valorizzatore, da persona a persona, con la ragazza bloccata da fobia scolare, con quella con famiglia disfuzionale e senza autostima, ecc. ecc. Guardarli a uno a uno, ha sottolineato la prof, non come categoria studentesca. Mi sono segnato questa frase: “Tante fatiche dipendono dal fatto che trasmettiamo messaggi negativi ai ragazzi, presi dalla preoccupazione per l’esito, anziché per il processo di crescita”. Per i bambini del catechismo questa indicazione è preziosa, l’ho sperimentato.
Delle tante cose dette dalla preside del liceo classico e scientifico dell’Istituto Sacro Cuore di Milano, Anna Frigerio, ho trattenuto in particolare due punti chiave. Uno, di metodo, preso paro paro da papa Francesco, che invita ad avere “un pensiero incompleto, cioè aperto e non rigido”, a non irrigidirsi, avere il senso dell’umorismo, godere della dolcezza della misericordia; pensiero “che è in grado di spalancare visioni ampie anche in spazi ristretti”, citazione che la Frigerio trova consonante con la tipica sollecitazione di don Giussani all’apertura della ragione quando si parla di educazione. L’altro punto chiave e che simili relazioni educative nel rapporto scolastico si giocano nelle materie, non su un binario parallelo. Sante parole. Mi sono trovato ad aiutare un ragazzo, mi pare egiziano, a studiare la vita di Dante. Avrei messo al rogo il manuale. Si cominciava con due pagine di lana caprina sul mese e il giorno (ignoti) della nascita del Poeta, seguite da altre due pagine di lana caprina sull’origine del nome Alighieri, se patronimico o toponimo. Ovvero, come rendere estranea una meraviglia piena di nesso e suggerimento per un ragazzo oggi.
Qui risulta preziosa l’indicazione di Sergio Monopoli, preside del Liceo Beccaria di Milano, che invita a non piazzare modelli ma a stabilire una vicinanza, e richiama il fatto che l’adulto deve contagiare il desiderio, contro l’apatia e il cinismo. Tutto ciò in un contesto, come ha ricordato Susanna Mantovani, docente di Pedagogia nell’Università Statale Bicocca di Milano, di “ascolto” e di “conversazione”, perché fare scuola non è la “tripletta domanda, risposta, valutazione” ma “parlare insieme”, imparare a riflettere e argomentare, sviluppare il pensiero critico. Dialogo, dunque, come spazio di lavoro comune sul comune interesse educativo. Insomma un laboratorio in cui mi sono riconosciuto e che mi ha stimolato.
Le conclusioni di Giorgio Vittadini, professore di Statistica all’Università Statale Bicocca di Milano, hanno sottolineato il valore dell’educazione come esperienza, come dinamismo di verifica nel reale. Non mi pare affatto che abbiano rinnegato identità e impegno per libertà di educazione, come è stato contestato da qualcuno; semmai hanno — anche ruvidamente — messo in guardia dalla loro mummificazione, o ideologizzazione (perché il rosario è santo, ma anche il rosario lo si può dire male).
Vittadini ha dapprima valorizzato i quattro interventi evidenziando punti chiave di esperienza ignorando i quali si capisce meno il resto. Quello della Zanelli perché invita a “superare le colonne d’Ercole”, cioè a “non fermarsi negli schemi e entrare nella personalità dei ragazzi: la scuola deve scoprire il boa che è in noi” (citazione del Piccolo Principe di Saint-Exupéry). Poi l’intervento della preside Frigerio, e cioè la capacità di fare emergere la propria “diversità dentro l’ora di lezione, con l’immedesimazione e l’implicito”, in cui non incolli l’ideologia o aggiungi poi “il fervorino cattolico e magari la messa come momento forte di cui non importa nulla a nessuno”, ma “fai emergere” e metti a disposizione della discussione fra ragazzi “affascinati dalla materia”.
Infine, degli interventi di Monopoli e Mantovani, Vittadini ha sottolineato che la scuola come istituzione è “un luogo di incontro e di dialogo, non è il singolo che si somma ma è della gente che si mette insieme”. Un soggetto che dialoga, ecco quello che auspica Vittadini. Un soggetto, si badi. Vittadini si dice stufo di certi vecchi “dibattiti ideologici su scuola pubblica e scuola libera” che ritiene appunto sterili quando “nascono perché uno non ascolta l’altro”. Per promuovere la libertà di educazione serve ben altro che tal genere di dibattito ideologico. Insiste sull’ascolto reciproco: “Se sono comunista e ascolto il cattolico, divento un po’ più cattolico”, e viceversa… e alla fine “chissà cosa sono. Ma meglio, perché devo mettermi in crisi. Guai alle ideologie, è finito quel mondo. Il mondo è dialogo”. A me capita così, dice Vittadini, “quando ascolto certi interventi al Meeting”. Anche a me capita così. Se mi paragono con l’esperienza reale, dico tranquillamente che è così. L’identità forte è aperta, l’identità aperta è quella che dall’ascolto delle ragioni dell’altro trae arricchimento, rafforzamento nell’eventuale correzione di qualcosa. Quando è tornato dall’incontro con il Saladino, Francesco (il santo, non questo papa) colpito dalla religiosità che aveva visto e ascoltato, è stato zitto per due anni sulla materia mettendo in discussione i suoi precedenti convincimenti. E’ diventato santo, non islamico.
Incontrarsi solo sulla base di definizioni previe non aiuta né ad ascoltarsi, né a farsi capire: come nei talk show televisivi, paradigma della degenerazione del bar sport, dove hai ragione a priori in base al tifo, non certo modelli educativi.
Siamo fatti che se non ci arriva qualche pugnetto nello stomaco sonnecchiamo. Ecco un altro pugnetto: “La scuola deve essere un cambiamento di teoria. alla fine dell’anno non si capisce più chi è comunista, cattolico o agnostico perché un uomo intelligente cambia idea e i ragazzi sono contenti”. Trovo verissimo anche questo: non è corazzandomi dietro una definizione imperturbabile che mi pongo utilmente nella realtà, non è che in forza della mia identità tutte le mie idee sono giuste a priori: per esempio, dal fare catechismo così, Dio me ne scampi, altrimenti poveri bambini. Alcuni invece interpretano questa frase come se Vittadini dicesse: “nel dialogo è bene che si perda la certezza dell’identità e si cambi idea”. “Cambiamento di teoria” viene fatto coincidere con “perdita della certezza della propria identità”. Invece l’equazione teoria-identità è proprio quella che Vittadini respinge. Con l’esempio della mela di Newton, che gli ha fatto cambiare teoria (non certo, aggiungo io, identità). Si arriva a questo dialogo perché l’identità è forte: forte nella realtà e nell’esperienza, non nell’autoproclamazione identitaria.
La libertà di educare come feconda esperienza in atto. Questa mi è parso il succo della storia, cioè dell’incontro riminese. Dove non a caso l’ex ministro dell’Istruzione Luigi Berlinguer ha detto con forza che la parità scolastica è motivata e richiesta dalla Costituzione. Dove la parola libertà è la condizione ineliminabile e coessenziale di un lavoro educativo aperto, dinamico, capace di guardare l’altro e la realtà. Ho studiato fino a 17 anni in una scuola cattolica. Quando ho messo in campo pubblicamente le mie domande: se esiste Dio, perché diavolo si deve andare a Messa tutti i giorni, ecc., mi hanno risposto che loro erano una scuola cattolica, che quella era la loro identità. Mi hanno proposto un modello e non un metodo per verificarlo. E siccome del modello non sapevo che farmene, mi hanno pregato di iscrivermi ad altra scuola (formula clerico-democristiana per dire espulsione). A quei preti voglio ancora bene, ma — davvero — loro proprio non sapevano come cavarsela. Però quella non era (vera) libertà di educazione.