La Grande Crisi ha mietuto in Italia centinaia di migliaia di vittime anche fra imprese e imprenditori e ha messo sotto inevitabile pressione le loro strutture associative e le loro forme di rappresentanza. Nessuna organizzazione è riuscita a rimanere indenne dalle turbolenze, ha notato Dario Di Vico sul Corriere della Sera: tutte sono in discussione. Tutte si ritrovano oggi nel riparo precario di un cantiere di grandi riparazioni, dal quale non è affatto certo che tutte usciranno per riprendere di nuovo il mare.
Le strutture esistenti (al pari delle loro controparti sindacali) hanno indubbiaente perduto numeri, legittimazione pubblica, capacità di incidere sulle grandi scelte di politica economica. Al termine di un Meeting in cui si è discusso molto e al massimi livelli di come “riguadagnare” la ripresa (dal premier Gentiloni, ai ministri Calenda e Poletti, al governatore Visco), la questione appare pertinente. Non che a Rimini le associazioni imprenditorali siano rimaste silenti o ai margini. Dal presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia, a quello della Coldiretti, Roberto Moncalvo, a quello della Compagnia delle Opere, Bernard Scholz, sono state numerose e vitali le testimonianze di leader della rappresentanza. Senza dimenticare presenze peculiari come quella di Elena Zambon, presidente dell’Associazione italiana delle aziende di famiglia. Oppure le sessioni promosse da realtà come Federlegno o Farmindustria.
Dimensione, territorio, settore, tipologia di assetto proprietario, presenza socioculturale: sono molte e complesse le “eredità-valore” che le diverse forme associative italiane del secolo ventesimo stanno faticosamente cercando di “riguadagnare” nel ventunesimo. Corpi intermedi o aziende di servizi?
Senza dimenticare il ruolo di servizi ad alto livello, occorre dire che nessun commercialista, nessun consulente del lavoro o per la formazione, nessun mediatore creditizio, nessun advisor strategico, nessuna agenzia di export management o di pubbliche relazioni saprà mai supplire al ruolo fondamentale delle associazioni: essere il congregarsi di tante realtà.
Gli attori ultimi dell’associazionismo restano gli associati: sono loro che decidono di associarsi, di mettere in comune persone, fatti e progetti. Senza il “buon motivo”, senza l’emergere di un’esperienza comune e consapevole, nessuna struttura d’impresa o associazione resta in piedi. I produttori italiani di macchine utensili che nel 1946 si sono riuniti attorno a un tornio, oggi mantengono attorno a “Industria 4.0” la stessa condivisione di valori, la stessa voglia di confrontarsi nella “loro” associazione, di parlare e agire attraverso di essa. Ma lo stesso avviene per i coldiretti “a chilometro zero”: non sono più un serbatoio elettorale di un partito di maggioranza come nell’immediato dopoguerra, eppure sbaglierebbe di grosso un governo (qualsiasi) che negasse tout court il loro ruolo di super-corpo intermedio del sistema-Paese, all’incrocio di molti Made in Italy.
Lo stesso si può dire per svariate altre organizzazioni, come la stessa Compagnia delle Opere che mette in comune il desiderio di vivere il lavoro con un desiderio di promuovere l’uomo in ogni suo aspetto, di aiutare chi ha più bisogno di far crescere iniziative imprenditoriali dal basso. Non-profit, opere di carità, imprese che generano lavoro in ogni punto di Italia e non solo, sussidiarietà e solidarietà diffusa in mille aspetti della società ne sono i frutti. Ma soprattutto in tutte queste azioni è cresciuto un soggetto umano irriducibile agli errori propri e altrui sempre positivo e mai populista in azione continua contro ogni crisi. Occorre accorgersene magari incontrando e guardando in azione molti di questi tentativi: si può capire meglio a cosa serve questo e tanti altri corpi intermedi.