Tutto sembra invitare all’ottimismo, almeno dal punto di vista spagnolo. E, perché no, anche europeo. Undici mesi fa siamo tornati dalle vacanze estive con la paura degli appuntamenti elettorali in Olanda e Francia. La May era già al numero 10 di Downing Street promettendo di negoziare una Brexit dura. Ora si va al mare o in montagna con Macron, presidente europeista, all’Eliseo e con una forte maggioranza in Parlamento; Merkel si è notevolmente rafforzata in vista delle elezioni di ottobre; la lotta contro il protezionismo e il “negazionismo ambientale” ha consolidato durante l’ultimo G20 un fronte europeo che, improvvisamente, sa per cosa combattere; la Premier britannica non ha più la maggioranza assoluta e dovrà accettare una Brexit morbida. Possiamo dire di aver superato le turbolenze? In quest’anno sono stati sconfitti il nazionalismo e il populismo che mettevano in discussione l’Europa forgiata nel dopoguerra?
Un anno fa la Spagna era ancora senza governo. E aveva di fronte un’estate tempestosa, in quanto non si potevano escludere nuove elezioni. Per questo Rajoy si è presentato nei giorni scorsi, prima di una “vacanza normale”, come il campione europeo della stabilità politica e dei buoni risultati economici. Pur non potendo contare sull’appoggio dei socialisti, Rajoy ha portato avanti la manovra del 2017 e si appresta a fa approvare quella per il 2018. La legislatura sarà lunga e il presidente, messo in discussione durante l’anno di stasi politica, anche all’interno del suo stesso partito, accarezza l’idea di correre anche alle prossime elezioni. “Perché no?”, si chiederà nelle sue passeggiate mattutine.
L’economia spagnola è quella che cresce di più nel mondo sviluppato, visto che vedrà a fine anno un incremento superiore al 3%. Il Pil è tornato ai livelli pre-crisi, sono stati creati più di 500.000 posti di lavoro all’anno. Tutto sembra essere tornato alla normalità, se non fosse che il Governo della Catalogna vuole dichiarare l’indipendenza in pochi mesi. Perché non esportare allora il modello Rajoy nel resto d’Europa? Politici tranquilli, con partiti disciplinati, disposti a fare le riforme, ma senza volontà di liquidare l’accordo tacito tra i liberali e i socialdemocratici per tenere in piedi lo Stato sociale. Stabilità e crescita economica per rispondere al populismo e al nazionalismo che infiammano i giovani, e non solo loro, in tutta Europa.
Il modello spagnolo difficilmente può essere qualificato come un modello. Persino per quel che riguarda l’economia occorre dare un giudizio equilibrato. Si crea sì lavoro, ma senza offrire una stabilità minima ai giovani, i salari sono in molti casi insufficienti e non possono salire perché il livello di produttività è basso, il tessuto imprenditoriale è debole. La disuguaglianza minaccia la coesione sociale. La disoccupazione resta molto alta e il mercato del lavoro non offre soluzioni per i disoccupati di lunga durata. Il sistema di istruzione non dà buoni risultati.
Il problema non è solo la gestione. C’è qualcosa nella genetica del Pp, come in molti dei partiti liberali e socialdemocratici europei, che li rende incapaci di comprendere la profondità della sfida, che non può essere vinta solo con la gestione. Il modo di fare politica degli ultimi decenni, la partitocrazia quasi inconsapevole, la mancanza di apertura alla vita sociale e la burocratizzazione delle istituzioni, hanno portato a un allontanamento delle nuove generazioni che aumenterà e che non può essere risolto solamente con un “ritorno alla normalità”. Perché la normalità non esiste.
La soluzione della crisi economica dimostra che la crisi non era solo economica. Più del 54% degli spagnoli ritiene che il secondo problema del Paese sia la corruzione. In Europa le istituzioni dell’Unione sono ancora percepite come distanti, come lo erano prima della comparsa di Trump e May. “Che altro si può fare? In Spagna abbiamo bloccato la possibilità di un governo social-populista-indipendentista. Abbiamo fatto crescere l’economia. È stata avviata, anche se in ritardo, una politica monetaria espansiva da parte della Bce. Non era quello che serviva? Non è quello che ci è sempre stato chiesto?”, si domandando i governanti spagnoli ed europei, “non ci hanno sempre chiesto sano realismo in politica?”.
Il realismo, sempre necessario, e la tecnocrazia sono due cose molto diverse. È logico che nel Pp, e in tutti i partiti tradizionali che incarnano la socialdemocrazia e il liberalismo classici, ci siano casi di smarrimento antropologico del momento. Prova ne è il fatto che metà del partito è a favore della maternità surrogata e metà contro. Alla Cdu tedesca succede la stessa cosa. Il problema è che non si rendono conto che i presupposti su cui si basa la loro legittimità si sono dissolti. Si è rotta la catena di trasmissione che passava da una generazione all’altra la legittimità delle istituzioni democratiche e dei partiti.
Il realismo consiste nel soddisfare le esigenze esistenti con le risorse disponibili. E c’è una necessità di cui quasi tutti sembrano non accorgersi: quella di trovare ragioni ed esperienze per vivere insieme. Ragioni ed esperienze in una società sempre più pluralista in cui la globalizzazione ha rivelato che le vecchie appartenenze e identità sono vuote. La politica non è in grado da sola di generare la risposta, ma può canalizzare e potenziare le risposte sociali esistenti. Sembra qualcosa di etereo, ma è in realtà molto concreto. Era molto concreto per i padri fondatori dell’Europa, per i padri ri-fondatori della Spagna all’epoca della Transizione.