Lo Stato di Anambra e lo Stato di Imo in Nigeria sono confinanti. Nel primo la domenica della Trasfigurazione è stata bagnata di sangue con una resa dei conti in cui le autorità locali hanno escluso la pista terrorista. Le fonti parlano di circa venti morti, assassinati in Chiesa durante la Messa da alcuni membri di una gang di narcotrafficanti in cerca del leader della gang avversaria. Il secondo stato, invece, è balzato agli onori della cronaca ecclesiastica nel giugno scorso, quando Papa Francesco intimò ai fedeli della diocesi di Ahiara — pena provvedimenti canonici immediati — di accettare il vescovo nominato da Benedetto XVI e mai accolto ufficialmente perché “di etnia diversa” da quella predominante nello Stato.
La criticità maggiore del cattolicesimo delle “giovani chiese” sta tutta qui, nel rapporto tra fede e cultura, un rapporto in cui la cultura di appartenenza sembra sempre prevalere sulla “novità” della fede. Il problema è antico e fu molto chiaro già ai Padri della Chiesa del IV secolo che, di fatto, impedirono all’eresia ariana di “ellenizzare il cristianesimo”, utilizzando il vocabolario greco per esprimere la fede e non per declinarla.
Non fu un cammino semplice: numerosi sinodi e controversie accompagnarono i primi sette secoli della Chiesa e tutti furono attraversati dalla tentazione di ridurre il cristianesimo a cultura. A ben vedere è questa una tendenza radicata nel genere umano, tendenza che l’oriente induista ha codificato in modo netto con la nozione di Dharma, ossia l’ordine cui le persone e le cose sono destinate, un ordine che conferma la struttura sociale e civile di una società e che ogni uomo è chiamato a perseguire e ad osservare. In epoca contemporanea fu Marx a mettere a tema il rapporto tra la struttura economica dell’occidente e la sovrastruttura religiosa conseguente, ravvisando in quest’ultima il sostegno decisivo al processo capitalista. È evidente che l’idea marxista per cui la coscienza sia un prodotto sociale affascina e interroga, ma la libertà della fede è proprio ciò cui ogni orientalismo e ogni analisi marxiana cercano di nascondere ed evitare.
I morti di Ozubulu in Anambra e i fedeli di Ahiara in Imo hanno quindi lo stesso problema davanti a sé: lasciarsi liberare da quelli che san Paolo chiamava “ta stoikeia tou kosmou“, gli elementi del cosmo, i fardelli culturali che ci impediscono di accedere alla vera cultura, quella che nasce dal rapporto col Tu di Dio, che mai — per dirla con Martin Buber — può essere cosificato e ridotto ad un “esso” a disposizione del potere di turno. Lo vediamo concretamente quando assistiamo agli inchini mafiosi al sud o quando confondiamo i valori dell’Occidente con la fede della Chiesa.
Il lavoro educativo da fare è enorme, nessuno ne è davvero esente, c’è infatti in gioco la nostra libertà di cristiani. Sant’Agostino lo fece brillantemente, separando il destino della Roma saccheggiata dai barbari da quello della fede della Chiesa. Iconizzò due città: quella dell’uomo e quella di Dio, invitando a non identificarle e a vivere la prima nella continua tensione verso la seconda, senza finirne prigionieri. Altrimenti anche a noi potrebbe capitare, come ebbe a dire Nietzsche, di affermare di essere stati salvati, ma di continuare a “non averne la faccia”. Una vita certa, insomma, ma senza letizia, senza la gioia del Vangelo.