Tra le foreste e i laghi della Carelia, a due ore d’auto da San Pietroburgo, ho incontrato qualche giorno fa la comunità terapeutica di padre Sergej Bel’kov, che da circa vent’anni accoglie ragazzi “difficili” e in particolare tossicodipendenti, con storie drammatiche alle spalle, e li aiuta a ritornare alla vita. Di qui sono passati finora un migliaio di giovani, con un 80 per cento di guarigioni, e alcuni di loro, come il giovane monaco Vasilisk, vi hanno incontrato anche la propria vocazione e la propria missione, scegliendo di restare in comunità per lavorare a loro volta con chi viene a bussare alla porta.
Un incontro particolare, anche perché insieme con me c’erano amici che si occupano da molti anni dello stesso problema in Italia e in Portogallo, e hanno accettato di venire, un po’ “alla ventura”, a esplorare questo pezzo di ortodossia e di Russia ancora così poco conosciuti.
L’occasione di questo incontro è stata un seminario “ecumenico” di lavoro, svoltosi il 1° settembre nel seminario cattolico della capitale russa settentrionale, che ha visto tra i partecipanti il vescovo ortodosso Mefodij, direttore del Centro di coordinamento per la lotta contro la tossicodipendenza del patriarcato di Mosca, e numerosi sacerdoti e laici russi impegnati da anni in questo ambito; al seminario erano stati esplicitamente invitati anche alcuni esperti occidentali, cattolici, del settore – padre Pedro Quintela, fondatore della comunità “Val de Acor” (“porta della speranza”), José e Lora Berdini che dirigono la comunità Pars di Macerata, Roberto Mineo e Stefania Saraceno per la comunità di don Mario Picchi. Con una richiesta precisa: che nel corso del seminario non ci si scambiasse semplicemente delle tecniche, non ci si confrontasse unicamente sulle metodologie concrete di cura per chi soffre di una dipendenza, ma si cercasse di sviluppare insieme una “teologia” del sostegno a queste persone, che vivono in ogni caso gravi disagi ma sovente presentano anche disturbi psichici.
In altre parole: ortodossi e cattolici sono chiamati ad aiutarsi per comprendere qual è il compito, la missione del cristiano davanti a questo problema, che da un lato assume contorni inquietanti, massicci, manipolato e ingigantito com’è da lobby finanziarie e di potere, ma che nei suoi termini ultimi si identifica sempre con un volto, una storia concreta, un nome, che chiede aiuto e compagnia sul cammino di vita.
Proprio questa ipotesi di lavoro ha facilitato il compito e ispirato un clima di rispetto e attenzione reciproca, nella diversità – talvolta radicale – dei metodi impiegati. Ad esempio, padre Sergej propone a chiunque voglia entrare in comunità di ricevere fin dall’inizio il battesimo, come parte integrante della terapia, che consiste fondamentalmente in un’esperienza di vita cristiana comunitaria. Gli amici occidentali non hanno lo stesso approccio, ma nella libertà di scelta lasciata ai ragazzi che si affacciano alla comunità terapeutica si scorge la stessa stima per la fede e l’incontro con Cristo, a cui i giovani ospiti sono accompagnati. A parole come “inquietudine” e “vuoto”, ricorrenti nei discorsi fatti a merenda insieme agli ospiti della comunità di padre Sergej, si risponde da entrambe le parti con una proposta di libertà e di educazione al bello.
Negli ultimi anni i nuclei comunitari di padre Sergej sono diventati addirittura tre, e tutti si avvistano quando, dopo un lungo tragitto nel bosco, si vede svettare la cupola di una chiesa in legno, costruita con ogni cura e adornata festosamente di icone. È la prima e la più bella cosa che si costruisce – l’abbiamo notato in tutti e tre i casi –, la chiesa è il centro e il “faro” dell’intera comunità. Non ho potuto fare a meno di pensarci quando ho sentito papa Francesco parlare in Colombia delle “tante vite giovani stroncate, scartate, distrutte dai sicari della droga”. “I giovani sono per natura inquieti, in ricerca” – ha aggiunto il papa, sottolineando tuttavia la positività di tale “inquietudine, che va incanalata”. “Questa inquietudine riempie il volontariato di tutto il mondo di volti giovani… Quando lo fanno per amore di Gesù, sentendosi parte della comunità, diventano ‘viandanti della fede’, felici di portare Gesù in ogni strada, in ogni piazza, in ogni angolo della terra. E quanti, senza sapere che lo stanno portando, lo portano! È questa ricchezza di andare per le strade servendo, di essere viandanti di una fede che forse loro stessi non capiscono del tutto; è testimonianza, testimonianza che ci apre all’azione dello Spirito Santo che entra e lavorerà nei nostri cuori”.
La stessa “porta della speranza” che padre Pedro ha aperto a Lisbona, si spalanca qui tra i boschi del Nord della Russia per ragazzi che lavorano da mattina a sera tra la segheria, le stalle e gli alveari, scoprendo in tutto ciò che fanno e nei rapporti tra di loro un significato nuovo e rispondente alla loro inquietudine. Nell’opera di padre Sergej, come in quella di José e di Lora, nel villaggio di San Michele Arcangelo tra i monti dell’Appennino, o in quella di don Picchi si intravvede – nella diversità dei metodi e del contesto culturale – la medesima esperienza di fede che ha fatto rispondere papa Francesco, alla domanda di un ragazzo, “Cosa posso dire a un mio compagno, giovane, che è ateo, che non crede? Che argomenti posso portargli?”: “Guarda, l’ultima cosa che devi fare è dirgli qualcosa!”. “È rimasto sorpreso – ha commentato sorridendo il papa –. Comincia a fare, comincia a comportarti in maniera tale che l’inquietudine che lui ha dentro di sé lo renda curioso e ti domandi; e quando ti chiede la tua testimonianza, lì puoi incominciare a dire qualcosa. È tanto importante questo essere viandanti, viandanti della fede, viandanti della vita”.