In Europa, come in tutto il mondo, la sinistra e la destra parlano della necessità di tornare ai “nostri valori”, quelli che in altri tempi ci hanno definito, ci hanno dato un’identità certa prima che la globalizzazione stravolgesse tutto. Ma davvero la globalizzazione ci ha “rubato” un’identità stabile? O è stata la crescente diversità che pervade il mondo?
I “nostri valori”, quelli che ci sono stati tolti o che ci vogliono togliere. Sì, ma quali sono questi valori? Quelli della nostra nazione, della nostra religione, del nostro popolo… Sì, va bene, ma quali sono i valori della nostra nazione, della nostra religione o del nostro popolo? Alla seconda domanda, forse anche alla terza, le risposte diventano più dubbie, più imprecise. La maggior parte dei comuni mortali non saprebbe rispondere con precisione. Sono gli intellettuali, i clericali, i tertulliani a saper recitare gli ideali. In una percentuale molto elevata questi ideali sono nozionali, dottrinalmente perfetti, senza alcuna carne di esperienza. Gli intellettuali spesso si guadagnano il pane sfruttando la sensazione che molti hanno di aver subito un furto.
In quest’epoca, che la Professoressa di letteratura ad Harvard Svetlana Boym ha definito come contrassegnata da una “epidemia di nostalgia”, domina un senso di perdita e di spaesamento, il desiderio di ricostruire una casa perduta che in realtà non è mai esistita. È la cosa tipica di un momento di sconcerto.
Come ha sottolineato Bauman in uno dei suoi ultimi scritti, il desiderio di tornare in una patria morale che non è mai esista è accompagnato da un ritorno alla tribù. I sintomi sono ovunque. Aumentano coloro che offrono una versione semplificata dei fatti. Nonostante i richiami al dialogo, nessuno ascolta nessuno perché si è creato un filtro emotivo. E si ascoltano solamente quei messaggi che hanno un significato emotivo per chi ha bisogno più che mai di una qualche forma di appartenenza. L’altro serve, fondamentalmente, come sottolinea il grande sociologo polacco, a soddisfare la nostra sete di superiorità. Se non esistessero gli stranieri, i gentili, i nemici della verità, i grandi centri di potere che stanno cambiando il mondo, bisognerebbe inventarli. La città che si dice essere costruita sui pilastri della razionalità, dell’efficienza e dell’utilità si divide in fazioni che, attraverso una ricompensa emotiva, promettono di ridurre l’incomprensibile e paralizzante complessità di un mondo che viene percepito come una minaccia.
E così le nazioni, prive del vecchio potere dello Stato, si vedono minacciate dai nazionalismi. Le chiese tentate di abbandonare la vocazione sbilanciata verso il mondo gentile e di offrire la vecchia appartenenza dell’etnia o della legge. I credenti, almeno alcuni, sedotti dall’utopia di ritirarsi in isole di fede, in un immenso oceano di laicismo, da cui ricostruire la civiltà. La frase “i nostri valori” solitamente nasconde una forma di identità che ha paura della diversità.
Solitamente si dice che aprirsi agli altri è una cosa buona, ma non si può cedere sulle cose essenziali, non si può rinunciare a ciò che è nostro, a quel che ci definisce. L’aggettivo “non negoziabile” può nascondere una forma di intendere la verità astorica e reificata, più tipica dei cataloghi ideologici che delle esigenze della vita. La ridefinizione della verità come rapporto è stata forse il maggior contributo civico che ci è arrivato negli ultimi anni da Roma. È un grande aiuto per superare l’epidemia di nostalgia, il ritorno delle tribù, la sindrome della fortezza assediata.
Se tutto dipende da un rapporto, non c’è passato in cui rifugiarsi e il presente ci viene incontro in forma amichevole, carico di voci diverse, con accenti distinti che arricchiscono un destino già noto e sempre da scoprire. L’altro, anche quando fa un danno che deve essere evitato, può non essere un ladro che si nasconde nella notte, ma un compagno di viaggio.