Nel concitato dibattito della politica italiana c’è un aspetto, unificante e purtroppo negativo, che riguarda tutte le attuali forze politiche italiane. Esiste un sottile filo rosso trasversale che in questi ultimi anni caratterizza quasi una stagione istituzionale e che guarda all’indietro nella storia della democrazia. In sintesi, si afferma una sorta di neo-centralismo che mortifica e annichilisce i cosiddetti corpi intermedi della società.

Torniamo per un attimo al 2001, quando fu approvata la riforma costituzionale e fu inserita ufficialmente la sussidiarietà nella Costituzione. Quella riforma fu approvata praticamente all’unanimità. Il principio era già presente nella nostra “carta fondamentale” all’articolo 2, ma quella scelta esplicita e codificata, di fatto sottolineò solennemente l’importanza storica dei corpi sociali intermedi, delle associazioni che si formano alla base delle società e che svolgono una funzione importante di difesa di diritti, di risoluzione di problemi e di partecipazione attiva e articolata alla vita di uno Stato democratico.

Dopo la fase risorgimentale e dopo l’estate del 1861, sono i movimenti cattolici e i primi raggruppamenti socialisti a opporsi alle misure antipopolari di governi centralisti e a difendere la condizione delle popolazioni italiane. Questa presenza, fatta di cooperative, sindacati, associazioni di diversa composizione, alimentata da un grande spirito antifascista attraverso i partiti politici, si rinnoverà nell’ultimo dopoguerra e contribuirà in modo decisivo alla ricostruzione del Paese. Si è potuto vedere fianco a fianco vecchie cooperative, associazioni imprenditoriali, banche popolari, banche commerciali, antiche istituzioni di diversa natura e ispirazione avere un ruolo spesso decisivo nella società italiana.

Sembrava che con la riforma “solenne” del 2001 cominciasse una nuova stagione, dove la sussidiarietà poteva diventare un motore per il rinnovamento e una nuova modernizzazione del Paese. La sussidiarietà, invocata anche per la nuova Europa persino da storici come l’anglo-americano Robert Conquest, sembrava a portata di mano di un’Italia dove il ministro all’Istruzione, Luigi Berlinguer, sanciva l’autonomia e la parità scolastica nel 1998. E quindi, con una valorizzazione delle autonomie locali, si poteva pensare a un welfare più efficiente e articolato, non più centralizzato solo nelle mani dello Stato; a un aiuto più concreto e solido alle piccole e medie aziende legate al territorio, in termini di formazione, di sostegno all’innovazione, di crediti agevolati con banche di territorio come le vecchie popolari, per mettere queste aziende (considerate le migliori del mondo) in grado di affrontare la globalizzazione con la loro produzione di eccellenza.

Persino un’istituzione, nota come potere forte, Mediobanca, ripensava al suo ruolo vedendo le banche popolari come soci principali a sostegno delle 4mila medie aziende italiane censite che non temevano concorrenza in tutto il mondo.

Ma quelle speranze di una stagione di grande sussidiarietà si è realizzata solo in alcune regioni, in Lombardia in particolare, dove la svolta è avvenuta nella sanità, nell’istruzione e nella formazione, nella costruzione di grandi opere con conseguenze positive che ancora adesso caratterizzano la regione per l’efficienza del pubblico e per un benessere che può garantire anche una ripresa dalla grande recessione di questi anni. Purtroppo a livello centrale, con le attuali forze politiche, si è fatto tutto il contrario.

Il centrodestra di Silvio Berlusconi, che avrebbe dovuto essere il miglior interprete della svolta sussidiaria, dopo la vittoria a mani basse del 2008, ha fatto provvedimenti contro la parità e l’autonomia della scuola e contro l’autonomia dell’università. In più, il centrodestra si è ben guardato dal tagliare la spesa pubblica clientelare e dal ridurre le tasse alle imprese che investivano, davano occupazione, brillavano nell’esportazione. Neppure si è adoperato per la cosiddetta sussidiarietà verticale. La sinistra al governo ha fatto spesso di peggio, cedendo quasi sempre alle componenti, sia politiche che sindacali, legate a uno statalismo disastroso e datato.

Non si riesce a comprendere neppure il contrasto tra la sinistra “classica” e Matteo Renzi, dato che il leader del Pd non ha fatto che continuare questa impostazione, mortificando in ogni modo i corpi sociali intermedi con la riforma delle “popolari”, delle cooperative, delle casse rurali, delle Camere di commercio.

Di fatto sia Renzi che Berlusconi rappresentano un unico modello: il “leader massimo” in rapporto diretto con il singolo isolato. Uno schema portato all’ennesima potenza dal Movimento 5 Stelle con l’uso del web, scambiato per unica piattaforma democratica. La finta democrazia dell’ascolto del singolo si trasforma in un’imposizione dall’alto fino alla formulazione dei candidati nominati e non eletti. Non per nulla il programma dei 5 Stelle è quanto di più statalista si possa immaginare, con una scuola centralista e di Stato, anacronistica, e un reddito di cittadinanza che prefigura soggetti passivi e l’allargamento della popolazione dei Neet.

C’è infine il percorso all’indietro della Lega che da forza che voleva il federalismo è diventata espressione del peggiore lepenismo e della xenofobia. Il filo rosso delle attuali forze politiche è l’abbandono dei corpi intermedi, che certamente non si sono dimostrati spesso all’altezza, che hanno pure praticato comportamenti illeciti. Di fronte a questi comportamenti, collegati al vuoto politico, spesso è scattata giustamente una presa di distanza e di condanna, ma spesso anche una demonizzazione gratuita che ha travolto tutto.

Quale sarebbe il rimedio? Buttar via tutto, il bambino con l’acqua sporca? Alla fine il male sarebbe peggio del rimedio. Una democrazia vive dell’articolazione di tanti corpi intermedi, dalle forze politiche alle associazioni di base. Occorre solo risanare con criterio e competenza.

Quello che stupisce è che oggi nessuno dei protagonisti della vita politica e sociale sappia immaginare una grande riforma e voglia solo copiare lo schema gerarchico dell’azienda del capitalismo finanziario moderno. Sarebbe un errore letale.