Mancano pochi giorni al referendum secessionista in Catalogna. Una delle poche opinioni sensate che si sono sentite nelle ultime ore è quella di Joan Manuel Serrat. Il cantautore catalano, esiliato per alcuni anni durante gli anni del franchismo, sostenitore del diritto di decidere, ha criticato la consultazione di domenica prossima. La considera “poco trasparente”, sostenuta da una legge catalana approvata senza alcun dibattito e alle spalle dell’opposizione. “Votare sì, ma così”, è arrivato a dire. Ma forse la cosa più interessante segnalata da Serrat è che “in Catalogna c’è una frattura sociale che richiederà molto tempo per essere superata”.
La convocazione del referendum in Catalogna, e anche la risposta che si sta dando, è una chiara dimostrazione di come quei valori ed evidenze che sostenevano la democrazia – e che credevamo acquisiti per sempre – si siano dissolti silenziosamente. L’evaporazione di queste certezze ha seguito un processo quasi inavvertito, le cui conseguenze ora stanno dando scandalo.
Giustificare la violenza o non volerla vedere, pensare che il progetto in cui si crede debba andare avanti quando metà della società non lo condivide ed esigere la sua materializzazione quando è contrario alle leggi e alle istituzioni… tutto ciò significa che le convinzioni che erano elementari sono scomparse. Non causare danni, accettare con realismo i limiti del quadro costituzionale, far prevalere in politica la pazienza che richiede il tempo necessario senza soccombere alle urgenze del momento, non fare della maggioranza l’unica regola di convivenza… erano alcune delle certezze civiche che sono crollate. È anche scomparsa l’evidenza del fatto che la sola legge, per quanto si possa insistere su di essa, non può dare fondamento alla democrazia.
Ma di tutte le evidenze elementari, quella che ha sofferto maggiormente è il riconoscere nell’altro, in qualunque modo la pensi e qualunque cosa senta, un compagno di viaggio. Questo è ciò che Serrat afferma con intelligenza. Le conversazioni censurate durante il pranzo con la famiglia, la rinuncia allo sforzo di raccontare quel che si desidera e ciò in cui si crede, il rumore stordente di discorsi chiusi, il non ascoltarsi. Per vivere bisogna starsene tranquilli. E mentre si spegne la voce della vita, si sentono solo le chiacchiere degli apparati. Quasi tutte le ferite possono essere chiuse, finché i membri di una società mantengono una stima per quello che considerano diverso. Senza l’esperienza che gli spagnoli hanno fatto durante la Transizione e gli europei dopo la Seconda guerra mondiale, si guarda di traverso, con paura l’altro e sorge la pretesa di cancellarlo dalla vita sociale. Un’identità matura, sicura di se stessa – che è ciò che manca – trasforma il rapporto con l’altro in un’occasione.
Queste esperienze di amicizia civica mancano in Catalogna? No. Quello che si vede è che la prima politica, non quella generata dall’ideologia, ma quella che sorge dalla vita non è soffocata. Quel che manca non sono esperienze di amicizia civica – il fare insieme dissolve molti fantasmi e c’è un fare insieme e un riconoscersi nelle comunità cristiane, nelle comunità culturali, negli enti non profit e nelle imprese. Quello che manca è la capacità culturale e critica, la stima, per mostrare il valore di queste esperienze di amicizia, sfidando la narrazione degli apparati.
Per capire come si sia arrivati a questo punto – metà società a favore dell’indipendenza e un’altra metà contro – bisognerebbe fare un esame dettagliato di ciò che è successo negli ultimi dieci anni. Nel 2006 i sostenitori dell’indipendenza erano solo il 14%. Le cose oggi sarebbero differenti se la successione dei leader nazionalisti fosse stata diversa, se Zapatero non si fosse sentito complessato e se quel complesso non si fosse trasferito nella riforma dello Statuto e se non ci fosse stata la crisi. Allo stesso modo va detto che non saremmo arrivati qui se il Governo di Madrid non si fosse aggrappato a una concezione debole e liberale della democrazia. Una concezione per cui lo Stato si attribuisce la funzione di mediare i conflitti attraverso la legge, di proteggere i diritti soggettivi in ??modo che tutti i cittadini siano liberi e uguali e di salvaguardare la sovranità. La democrazia è anche una comunità in cui i membri hanno una reciproca dipendenza e sono protagonisti di un processo continuo di formazione della volontà comune. Uno spazio dove tutti si raccontano e in cui si cercano soluzioni nuove e creative.
Tutto quello che è accaduto intorno al referendum rivela la sfida che abbiamo di fronte: ricomporre con esperienze di amicizia civica la frattura che si è verificata. Senza affrontare questa sfida, le soluzioni non saranno all’altezza della sfida che Serrat segnala. Né l’indipendenza, né la non indipendenza sono soluzioni sufficienti. La Catalogna, la Spagna e l’Europa hanno l’esperienza recente di questa amicizia civica, di un bene comune, presente, che è al di sopra delle ferite. Quelle aperte da una difesa ideologica di alcune idee che hanno l’etichetta di “verità”.